Uno, finché non ci passa, certe cose non le capisce, del terremoto, e anche di tutto ciò che gli gira attorno. Certo, il terremoto è di quel genere di eventi che uno preferisce anche restare ignorante al riguardo, meglio tenersi la lacuna, evitare l’esperienza diretta, come, non lo so, un incidente aereo, non è che uno se lo va a cercare per la curiosità dei dettagli, per notare cose che solo in prima persona si notano, e che poi, nei racconti televisivi, o dei giornali, non ci sono, e se ci sono, chi era testimone diretto ci fa caso, risultano deformate. Bisogna pure dire che, anche volendo, se uno ha questa mania di presenziare a certi eventi drammatici, per carpirne meglio l’essenza, non ce la fa mica a soddisfarla, nel caso dei terremoti, perché prevederli non si può, al massimo può andare ad abitare in una zona fortemente sismica, e lì, aspettare, se è fortunato. Insomma, fortunato.
Io, che non sono maniaco in questo senso, nel 1997, a settembre, il 26, ma poi anche nelle settimane e nei mesi successivi, ho partecipato, insieme a molti altri, nessuno volontariamente, credo, al terremoto di Marche e Umbria, senza ritenermi per niente fortunato, anzi, fortunato sì, rispetto a chi era più vicino all’epicentro, perché qui io ero a circa 30 chilometri, e poi, dicono, qui, sottoterra, c’è, non lo so, forse la sabbia, o qualcos’altro che comunque attutisce le onde sismiche, quindi abbiam tremato tanto ma si è rotto poco. Un bel culo.
Perciò, visto che ci sono passato, una cosa l’ho notata, quella volta, poi me la sono dimenticata, però la settimana scorsa, col terremoto in Emilia Romagna, guardando un servizio al tiggì, con l’inviato che parlava sullo sfondo di una casa squarciata, con un buco in mezzo, e le pareti esterne che non c’erano più, crollate, e si vedeva dentro, questo palazzo, questa cosa m’è tornata in mente, ed è che se uno, per farsi un’idea, si basa sugli edifici davanti a cui si piazzano gl’inviati, gli viene il magone, perché pensa che lì quel paese non esiste più, è solo macerie, e non c’è rimasto niente, in piedi, e di certo saranno rimasti vivi in pochi, e allora cambi canale, e c’è un altro servizio, davanti a un mucchio di macerie che nemmeno si riconosce cosa poteva essere prima, e ti si chiude lo stomaco e ti viene da piangere, e ti convinci che lì gl’unici vivi sono il cameraman e il giornalista, e pure il giornalista non ha mica una bella cera.
E invece chi ci sta in mezzo, o chi c’è stato, lo sa, che sì, ci sono state le vittime e i feriti, e i crolli e la paura, le corse, le tendopoli, ma c’è un sacco di gente viva, la maggior parte, per fortuna, e anche le case, ce ne sono in piedi, e non sono poche, anzi, e le persone, lì, la voglia che hanno di più è quella di normalità. E allora perché tu, giornalista, ti piazzi lì, sempre lì, costantemente lì? Cosa ti serve, una scenografia? Hai bisogno della messinscena, della dramatization, come dicono gli americani? Può darsi che vuoi convincermi che è una tragedia, il terremoto, solo che lo capisco da per me, che è una tragedia, il terremoto. Magari sei tu, a non saperlo, che sei arrivato il giorno dopo che c’è stato, il terremoto, e pensi che metterti lì, con le macerie alle spalle, con la casa squarciata, lo faccia capire meglio a chi non c’è mai passato. Ma non funziona mica.

(P.S.: Il pezzo qui sopra è stato scritto alcuni giorni fa. Poi, stamattina, in Emilia Romagna è successo quello che sapete bene. Abbiamo deciso di pubblicarlo comunque, il pezzo, perché quello che c’è scritto dentro vale, si spera, al di là del tempo trascorso dall’ultima scossa. A Nocera Umbra, dopo il terremoto del ’97, i ragazzi cantavano in coro “non crolleremo mai!”. Tenete duro anche voi.)