Giovedì, 8 gennaio 2015
Il freddo arrivò.
Oggi, alle quattordici, c’era il sole e c’erano meno 12 gradi.
Respirare faceva male.
In giro, tutti coperti, guanti, cappelli, sciarpe. Nessun fenomeno in maglietta a maniche corte come a capodanno, dove sì l’alcool, certo le drogazze, ma furono quei 4 gradi sopra lo zero a fare tutta la differenza.
Io non lo conosco affatto il freddo.
«Minchia lu frìddu», mi lamentavo quando a Palermo o a Roma c’erano quindici gradi.
«Non si può vivere così», piangevo quando dovevo uscire a fare la spesa con -orrore!- dodici gradi.
E, quando in Sicilia la temperatura crollava ad addirittura otto gradi -ma che è? Courmayeur? – tutti a urlare «cadono acèddri morti», perché con quella temperatura decisamente polare i passerotti sarebbero ghiacciati, frantumandosi in mille schegge sull’asfalto gelido. Otto gradi! Ma che diciamo vero? Era una temperatura per me incomprensibile, non si può vivere in questo inferno di ghiaccio, ma come fanno al Nord? Mistero sommo e incomprensibile.
Eppure, eccomi qui.
Ho scoperto che a meno dodici gradi non si muore, e non si muore neanche a meno diciassette. Bruciano le narici ed è obbligatorio avere i guanti e ogni sorta di burro cacao. Ma gli uccelli continuano a zompettare, a cinguettare, a planare dal balcone al ramo. E i mutandoni lunghi, quelli che dall’ombellico scendono giù fino alla caviglia, bé, loro sono diventati il mio migliore amico. La vita esiste, ci si copre di più e meglio, al limite il vento taglierà tutto ciò che non si sarà coperto.
È bianco, l’inverno, e non lo è per la neve.
È il freddo che è bianco, perché è assoluto e trasparente, onesto fino a fare male.
È qualcosa che mi irretisce e mi rallenta.
Se devo immaginare il canto delle Sirene, lo immagino così: freddo, al limite del glaciale, e per questo purissimo, di un nitore abbagliante.
È il suo momento, questo.
Il cielo qua sopra, manco a dirlo, è terso e sconfinato.
(nella foto, playground a SoHo, Manhattan)