Mercoledì, 7 gennaio 2015

La notizia della strage di Parigi a Charlie Hebdo arriva qui a New York, confermando come questo presente sia quello di una guerriglia oramai globale. Mi decido allora per affrontare adesso quella (che aggettivo usare: strana?, antipatica?, orribile?) sensazione – che anziché analizzare subito ho preferito sottovalutare, annotandola mentalmente alla voce “stranezza”, mentre l’ansia gettava i semi – che sistematicamente avverto ogni singola volta che qui a Greenpoint fuori dalla finestra torna a ripetersi la medesima illusione ottica. La vista dà sul World Trade One, il grattacielo che sorge laddove prima c’erano le Torri Gemelle, il cielo sopra New York è continuamente solcato da elicotteri e aerei e questo è ciò che accade abbastanza di frequente per il gioco della prospettiva:

1) l’aereo in volo punta verso il grattacielo

2) l’aereo scompare dietro – e io lo so che è dietro però io lo vedo “entrare” dentro, sempre, come nel 9\11 e mi attendo fiamme e fuoco e vetri rotti e fumo

3) il mio respiro si ferma, i brividi mi graffiano la pelle

4) l’aereo “esce” intatto, il grattacielo resta imperturbabile, il respiro riprende a fluire.

Il senso di precarietà che questa sensazione di disastro ripetuto e svanito mi comporta racconta senza infingimenti il mio disagio per questo presente di battaglia, per questa violenza inaccettabile. E questo disagio accade – come ogni volta che qualcosa di enorme accade fuori di me – anche dentro il mio corpo. Il disagio si fa carne. Una sorta di somatizzazione, legata però visceralmente alle mie origini. Nel mio corpo si concretizza una amplificazione sensoriale di quel particolare stato d’allerta che nel mio dialetto si chiama quartìo. Il quartìo, da quartiàre, è quella propensione, parecchio animale, per cui si fiuta un pericolo probabile e, contemporaneamente, si agisce per prevenirlo, preparandosi alla difesa, valutando opzioni, variabili e possibilità in un tempo infinitesimamente breve. Il quartìo appartiene alla pancia e al sangue, al ventre e agli occhi, all’udito e al controllo della muscolatura.

Apprendo così della terribile strage di Parigi e nuovamente il quartìo mi esplode, proprio come adesso che scrivo e un aereo sta puntando il grattacielo, si avvicina e per un secondo lunghissimo non c’è più, brividi lungo la schiena.

Il quartìo mi sta mettendo in guardia e il pericolo che sto correndo è facilmente individuabile: la riduzione forzata a regola generale di un fenomeno complesso. Tacciare cioè un intero gruppo, l’Islam nel caso in questione, di colpe e torti ascrivibili a singoli individui.

È una equazione che ben conosco questa, Sicilia uguale mafia.

La responsabilità è individuale, sempre. L’appartenenza politica e religiosa, la fede e le credenze, non contano. Tutto dipende da scelte compiute dai singoli. Certo, sono parole le mie, e le sto scrivendo per non farmi assalire dalla paura e dal rancore, così come mi serve stigmatizzare che una evidente, forte, incontestabile presa di posizione concreta da parte del mondo islamico che si definisce moderato non la registro. E adesso che ho scritto queste frasi il mio quartìo divampa, perché sia lui che io sappiamo che quello che sta per accadere è già scritto: si cavalcheranno paura e odio, da una parte e dall’altra, più per tornaconto personale che per altro, e ogni volta che un aereo si staglierà nello skyline tra i grattacieli di Manhattan, io continuerò a provare un preciso disagio e non ci sarà davvero nulla che riuscirò a opporre per spegnere la sirena d’allarme che mi trillerà nella testa.