Domenica, 28 dicembre 2014
Ad Harlem (e dove sennò?), ho assistito alla mia prima messa gospel della mia vita. Per chi, come me, proviene dal severo protocollo della liturgia cattolica, l’inizio è stato uno shock culturale: dopo una bella canzone che il coro ha cantato con il supporto dell’organo a canne, c’è stato un momento di rottura straordinario: su indicazione del reverendo e, credo, prassi della Chiesa, abbiamo iniziato ad abbracciarci con gli sconosciuti, a stringere la mano a chiunque fosse alla nostra portata, a camminare lungo la navata per stabilire un contatto fisico con altri esseri umani. C’era un clima di festa pieno di gioia e di stupore, ed è stata una delle sensazioni più vicine all’innocenza dell’infanzia che abbia provato negli ultimi tempi. Ecco: tutto era colmo di stupore infantile. A distanza, ci sbracciavamo per salutarci con le persone del coro, sedute a destra dell’altare, e sorridevamo tutti e baciare Silvia in bocca, lì, in una Chiesa, m’è sembrato il gesto più giusto e naturale che potessi compiere in quel clima di giubilo. E poi rispondevamo «amen» alle parole del reverendo, accentando la -e finale, «amén», dando a questa parolina di definizione assoluta uno slancio in più, un rilancio in avanti, un controritmo. E poi è accaduto qualcosa di imprevedibile. È salito dietro il leggio un ragazzone di colore parecchio robusto, tutto guance. Credevo stesse per cominciare un altro sermone, era stato questo in fondo lo schema della funzione: canzone, sermone, applausi a tutti (ma proprio a tutti: ai musicisti – si erano uniti pianoforte, organo elettrico e batteria -, al coro, al reverendo, a noi e, certo, a Dio). Invece no. Il ragazzone dice due parole due («Thanks, God») e inizia a cantare, accompagnato dall’organo elettrico. Il silenzio che è calato in quel clima di celebrazione gioiosa è stato quello che si stende leggiadro quando qualcosa di stupefacente accade: la prima neve che si posa sul mondo, lo sbocciare della rosa, l’esecuzione della Nona di Beethoven. Era, il nostro, il silenzio stupefatto di chi è commosso dalla grazia, dalla potenza struggente e dalla verità emotiva di quel canto. Pareva un pezzo di Al Green e i miei occhi erano pieni di lacrime. Poi il pezzo è finito, abbiamo ripreso a respirare, a cantare, a battere le mani, a provare a cantare, a sorridere. Il gospel mi ha dato gioia, sono stato benissimo e farò di tutto per tornare, amén.
(nella foto, l’arcangelo Michele davanti alla cattedrale di Saint John The Divine mi dà pienamente ragione)