Questa serie di scene è stata da me raccolta, selezionata e distorta in diversi anni di permanenza all’estero.
Berlino, Falkensteinstrasse. Pizzeria a taglio, ore 18. Tre romane sulla quarantina guardano la vetrina delle pizze, con apparecchiate 6 teglie diverse: margherita, funghi, patate, salame, rucola, prosciutto. La prima signora, gesticolando parecchio, urla al ragazzo in perfetto romano “c’avete solo queste?”. Il ragazzo la guarda in silenzio, sorridendo. La seconda, alzando il tono della voce e scandendo bene le parole, ripete “PIZ-ZA! SO LO QUE STI TI PI?”. Il ragazzo, impassibile, col sorriso congelato in viso, fa un leggero cenno verso le pizze come a dire “quale volete?”. Le tre sono sempre più perplesse. La terza realizza che a Berlino non capiscono il romano e prova a spiegarlo alle altre due: “mesà che ‘n t’ha capito”. Alla fine optano per il vecchio sistema binario dei segni e, con il dito, puntano la vetrinetta in direzione pizza con i funghi, seguito dalla richiesta “ecco, però damme l’angolo”.
Zossnerstrasse. Bar, 9 del mattino. Coppia giovane sui 30 anni, entrambi occhiali scuri Gucci, pantaloni neri, stivali, giaccone con cinta, borsa abbinata, lui D&G, lei Prada. Il ragazzo, puntando i cornetti, come fosse E.T. che vuole telefonare a casa, farfuglia un “Hai VUD dise”. L’accento sulla V di VUD denota almeno due anni di corso al British Council. La barista, una ventenne figlia di genitori ex DDR e simpatica come una barista berlinese figlia di ex DDR, prende la prima cosa che le capita sotto mano: uno strudel di mele che ricorda più la Luisona di Benni che il tipico dolce viennese. Il tipo sta per dire di no, ma la barista è più scaltra e, afferrata la pasta, la agita per aria la infila subito in una busta, dicendo seccamente “dass hier” (questa?), una roba che in tedesco suona come un comando a morte. Il ragazzo, intimorito e in stato confusionale linguistico, risponde prontamente “Oui!”. È il turno della ragazza che, concentratissima, per evitare di fare la fine del suo fidanzato, si toglie gli occhiali da sole e, intercettato lo sguardo della barista, prontamente le fa un segno di vittoria con la mano e, con lo stesso accento British del ragazzo, chiede: “Ciù Couffi”. Prontamente gli arrivano due tazze da mezzo litro l’una di caffè americano, perché l’espresso, in tedesco, si chiama espresso.
Gneisenaustrasse, poco prima dell’incrocio con Mehringdamm. Gruppetto di romani, tra i 50 portati male e i 60 portati come i 40, tardo pomeriggio. Uno di loro è sulla pista ciclabile. Lo sa bene perché la guarda, la commenta, la fotografa pure. Nel mentre, da lontano, sopraggiunge un ciclista tedesco: pedala a ritmo di 80 colpi al minuto, punta chiaramente verso il mio connazionale. Sono circa 150 metri all’impatto. Faccio due passi indietro, verso il muro del palazzo per avere una visione migliore della scena. Da una parte il tedesco con il suo concetto germanico di autodeterminazione dell’uomo, viene indotto a pensare che il cazzone, in piedi come uno stronzo, in mezzo alla pista ciclabile (dove non dovrebbe stare), vedendolo arrivare si toglierà dalle palle. Siamo a 100 metri all’impatto e la situazione non cambia. Il romano, dal canto suo, ha valutato bene la larghezza del marciapiede e, conscio dei suoi 50 anni vissuti a Roma, dove vale la regola del “massimo rendimento con il minimo sforzo”, sa che restando immobile quello gli può passare di lato senza problemi. Ora sono circa 50 metri all’impatto. Il ciclista ha passato il punto di non ritorno, capisce che lo stronzo non si muoverà mai dalla sua posizione e non gli resta altro che scampanellare forte. Il romano, dal canto suo, capisce che quello “va dritto come ‘n treno” e non proverà mai ad aggirarlo. A pochi metri all’impatto, entrambi fanno quel minimo indispensabile per evitare la collisione. Il ciclista, evitato di pochissimo il romano, grida un MANN (tra “accidenti” e “cazzo”, ma neanche troppo). Il romano, invece, prontamente allunga tutto il braccio come fosse una rampa di lancio e lascia partire un Malimortaaaaaaaccccitùaaa. Seguono 40 minuti di discussione con i suoi amici sulla vita e la morte.
Takestrasse. Ristorante italiano. Quattro italiani, seduti ad un tavolo accanto a noi, aprono il menù scoprono che ci sono anche i “saltimbocca alla Romana”. All’entusiasmo iniziale, segue subito il dubbio amletico del più anziano del gruppo: “ma sei sicuro che li sanno fare?”. Il più sveglio, allora, fa subito cenno di sì con la testa, come a dire “fidate, è ‘n’amico mio”. “Sarà – ribatte scettico il primo – ma a me sto posto non me convince mica”. Alla fine optano per le pizze.
Stati Uniti. Chicago. Lungo la Avenue Michigan, con 36°C, 3 coppie del nord: gli esemplari maschi portano tutti calzoncini, marsupio e mocassini. Uno senza calze, gli altri due con calzini di filo corti. Le donne: pantalone chiaro di lino, scarpa bassa, magliettina trasparente, borsa gigante, trucco a metà tra “battesimo di un cugino” e “selfie senza trucco”, iPhone nella mano destra. Dopo 800 metri, lei commenta al marito “ho i piedi a pezzi, forse avremmo dovuto prendere un taxi”. Dietro, le amiche sue, guardandosi intorno, aggiungono “a quest’ora, in Italia, la Monica starà già in apericena”. Segue votazione unanime per tornare in albergo e prepararsi all’aperitivo.
Aeroporto di Denver, Colorado. Famiglia italiana proveniente da New York, direzione California. Lo so per certo perché durante il check-in ha spiegato alla hostess tutto l’itinerario fatto da casa sua, nel bergamasco, fino al gate 4G. Mentre lui si guarda intorno, in silenzio, la moglie legge un libro di Erri De Luca. I figli, invece, si stanno facendo dei selfie ai genitali. No, non è vero, ma mi sarebbe piaciuto. Ad un certo punto il marito, a voce alta, ci dice cosa pensa degli Stati Uniti: “È un po’ come la Lombardia, solo con i grattaceli”. Non conoscendo la Lombardia (fatta eccezione per Milano), prendo nota della cosa e, come prossimo viaggio, mi riprometto di fare un coast-to-coast Desenzano del Garda – Voghera.
Spagna. Madrid, quartiere del Lavapies. Davanti ad un bar di tapas ci sono 5-6 italiani. Sono finiti lì grazie alla Lonely Planet che segnala quel posto come “autentico bar di tapas frequentato solo da spagnoli”, almeno finché non è arrivata la Lonely Planet e gli spagnoli autentici del posto hanno dovuto cambiare bar. Dicevo, gli italiani fuori dal bar, vestiti casual per l’occasione, si stanno abbracciando. Sono felici di essersi trovati in quell’ameno posto che è appunto Madrid e che dista almeno 114 minuti dall’Italia, volo diretto. Dopo 20 minuti di pacche sulle spalle, decidono di celebrare la cosa proponendo di farsi una bella spaghettata tutti insieme, ché, sì, il Jamon Cerrano, las Papas Bravas, las tapas, la paella, las gambas, el cafe cortado, un par de mamadas y el pacharan, ma due spaghetti aglio e olio, vuoi mettere?
Tornando verso casa guardo la mia ragazza e chiedo “ero anch’io così?” Lei ci pensa un attimo e sorridendo mi fa “anche peggio”.
[artwork by aMusoDuro]