«Io ne ho viste bottiglie
che voi umani non potreste immaginarvi,
Raki delle montagne dell’Anatolia
nelle gole infuocate di profughi curdi
alla periferia di Smirne,
e ho visto il fondo del Sake non filtrato,
melma glutinosa che scorre
tra le gengive dei pescatori di Okinawa.
E tutti quei momenti andranno perduti
nel tempo
come lacrime nel Barolo.
È tempo di bere»

La sbronza. Unico, solo, vero atto rivoluzionario che ci viene concesso. Non c’è classe sociale che ne sia esente: dall’operatore di call center al prete di periferia, dallo studente di architettura alla casalinga trascurata da un marito impiegato che torna tardi dopo una sbronza con i colleghi. Si beve dopo una delusione, dopo una felicità inaspettata, si beve per dimenticarsi con chi si è usciti a bere, si beve per ricordarsi con chi si è passata la notte e, spesso, dimenticarselo di nuovo. Socrate odiava gli egizi, popolo, secondo lui, perennemente ebbro di una birra ottenuta dalla fermentazione del dattero. Ubriachi, hanno costruito le Piramidi, le statue di Akhenaton, Ramses, Ramsete, inventato le stufe a legna per la biblioteca di Alessandria e dalla grande luce che ne seguì costruirono il Faro. Fu proprio grazie al Faro che aprirono la via del Mediterraneo all’Egitto, permettendo l’invasione dei Romani, gran bevitori di vino rosso coperto da scaglie di pecorino. I figli della Lupa inventarono l’apericena molto prima che qualche copywriter milanese decidesse che per continuare a prendere per il culo i social media marketer e gli stagisti delle società interinali, il termine aperitivo non bastava più.

Altre tracce di alcol si trovano nelle Sacre Scrittura. Il vangelo apocrifo di San Giuseppe da Genova, detto Beppe, parla di tre aristocratici ubriaconi che, a cammello di tre dromedari da rally, attraversarono il deserto seguendo una scia chimica, poi trasformata in stella cometa dalla stampa di regime giudea, alla ricerca di una birreria artigianale a Betlemme. Trovarono invece una famiglia di immigrati che abitavano in una stamberga pagata dall’Impero, ricevendo addirittura uno stipendio di 1500 sesterzi mensili e ospitando animali da fattoria nella più piena illegalità. Vergogna!

L’alcol curava le ferite che i crociati si procuravano in battaglia. I mori, musulmani astemi, morivano di infezioni proprio a causa della loro impossibilità nel toccare qualsiasi cosa avesse a che fare con l’alcol. Maometto non andava alla montagna perché non gli piaceva il vin brulè e quindi basta alcol per tutti i fedeli. Ma siccome al buon vino si accompagna il tagliere di salumi: porchetta, pancetta coppata e salame ungherese a 9 euro e 90, che sinceramente ci sembra esagerato, niente più maiale dal Marocco fino all’Iran. Per quale motivo nella Persia pre-islamica il vino veniva cantato nelle quartine di Omar Khayyam e nei versi di Rumi, per poi venire bandito da Maometto e dai suoi fedeli? Forse, nell’ebbrezza della sbornia, il singolo diventa il tutto, l’umano assurge a divino, uno vale uno, ma se beve vede doppio e poi rilancia? E se davvero fosse così, perché il cristianesimo ce lo permette? La risposta, ovvia, sarebbe: noi siamo stupidi. Gli arabi, in primavera, fanno le rivoluzioni, noi prepariamo le vacanze, facciamo debiti per 7 giorni soft all inclusive a Marsa Alaam, annunciamo un autunno di fuoco e poi arriva la vendemmia, il vino novello, il Beaujolais Nouveau, il piattino con tris di formaggi a 8,80, aperitivo street food, cartoccio di rognone impanato, cartoccetto di cous cous sbiadito, birra non filtrata, Hamburgeseria, panino Rebibbia a 10 euro, San Vittore a 12, Opera e Regina Coeli 14 euro, Sant’Elena aiutaci tu, mandiamoli tutti in galera, sì, ma prima: l’apericena.

Grazie per avermi letto fino a qui, il buffet è aperto. 7 euro, drink incluso.