Ieri, nel primo pomeriggio, sono morto.

Lo so, non è il modo più originale per cominciare un qualsiasi racconto, seppur autobiografico, ma a mia discolpa posso dire che l’evento è stato del tutto inatteso e, forse, proprio per questo, non ne ho percepito la gravità, né tantomeno il dolore.

Del fatto che fossi morto, me ne sono accorto verso le 17 e 30, quando il vecchietto con gli occhi azzurri che prende sempre a quell’ora il 71 a Santa Maria Maggiore non mi ha visto. In realtà, è stato lui ad accorgersene; a me sembrava tutto uguale. Mi aspettavo che, come ogni giorno, mi rimproverasse la sigaretta spenta tra le dita e mi consigliasse il suo metodo infallibile per smettere di fumare: pregare la Madonna. Non Gesù o un qualsiasi altro santo del calendario, no, solo la Madonna poteva aiutarmi. Io, però, avevo due problemi a riguardo: non volevo smettere di fumare – adesso che non posso avere sigarette o tabacco questa cosa mi fa sorridere tantissimo – e non credevo nella religione. In ogni religione. E anche questa cosa adesso mi sembra assurda, ora che il vecchietto, a cui non ho mai chiesto il nome, non mi vede, ma con i suoi occhi buoni, come per dirmi: “Te l’avevo detto”, mi parla dicendo: “Te l’avevo detto”.

Ma veniamo al motivo della mia morte. Tutto cominciò tre giorni fa, quando diventai un supereroe.

Mercoledì mattina, preso da non so quale foga igienista, decisi di pulire il lavello della cucina. Forse il caldo, forse il fatto che fosse davvero incrostato, mi misi a cercare in tutti gli scaffali e ante della cucina una confezione di Viakal che ero sicuro la vecchia inquilina avesse lasciato. La trovai e senza controllare la data di scadenza – chi mai lo fa? – ne versai generosamente su tutta la superfice in acciaio inox e sulle rubinetterie. Certo, se avessi seguito l’esempio di mia madre e avessi usato dei guanti da cucina, non mi sarei ritrovato una ferita di 2 millimetri sul pollice coperta di un liquido viscoso scaduto da tre anni.

Il dolore all’inizio fu leggero, quasi impercettibile, ma lo sentivo penetrare nel mio corpo. Sentivo le vene pulsare, come inondate da una resina linfatica. Lì per lì non ci feci caso, non ritenni nemmeno valesse la pena sciacquare le mani sotto l’acqua corrente. Più tardi, verso le 3 del pomeriggio, mi resi conto che qualcosa stava cambiando. Avevo come un altro livello di percezione, un alto livello di percezione, era come avere dei Google Glass su tutta la superfice dell’epidermide. Vedevo cose che sfuggivano alla gente comune, vedevo la realtà per com’è veramente, la sentivo, toccandola. Se appoggiavo il palmo della mano sul tavolo potevo sentire il legno piangere, accarezzare il fuso in metallo cromato della piantana mi trasmetteva in mente una serie di immagini della Scandinavia; fu lì che capii che la proprietaria di casa aveva comprato tutto l’arredamento all’Ikea. Volli spingermi oltre, dovevo capire in cosa questo potere realmente consisteva, in fondo anche Spiderman, dopo la puntura del ragno radioattivo, ha passato del tempo tra il rigetto e la consapevolezza.

Uscii di casa, senza immaginare che una semplice passeggiata poteva trasformarsi in un incubo: ogni cosa, persona, animale mi trasmetteva una quantità insopportabile di informazioni. Chi erano, cosa facevano, quanto soffrivano o quanto fossero felici in quel momento, con chi e per chi provavano un qualsiasi sentimento. Nomi, volti, corpi, tutti gli aggettivi che compongono un soggetto. Non so se riuscite a rendervene conto, se camminando toccavo un’auto parcheggiata, venivo in contatto con tutti gli operai che l’avevano assemblata, con le loro vite, le loro paure, le loro famiglie, le loro gioie. Chiusi gli occhi e decisi di ripartire il mio cervello in singole unità logiche, come un gigantesco hard disk. Due terabyte erano solo per gli insulti a Marchionne.

Ma ciò che successe dopo cambiò davvero la mia vita, quando in edicola sfogliai una copia di Chi e accarezzai, involotariamente, la foto di Alfonso Signorini.

(continua…)