Attenzione: la recensione che segue  è stata disapprovata da Spike Lee, il quale, a titolo personale, se ne dissocia nei termini e nei contenuti, in quanto la parola “Afroamericano” è un suo ©.

Uno straordinario Tarantino riesce a ricreare il deserto e le atmosfere desolanti del Texas nella campagna milanese della seconda metà dell’Ottocento.

Un ricco proprietario terriero, amante dei combattimenti all’ultimo sangue tra negri*, invia un cacciatore di taglie tedesco, Von Galljan, accompagnato da Ray O’La, un valletto irritante per quanto avido e gretto, a Manchester, per trattare l’acquisto, da alcuni schiavisti arabi, del supercampione negro Django, detto Mario. Von Galljan ha a disposizione 20 milioni di euro, ma consigliato dal viscido Ray O’La, ne offre solo 12mila + 300 dollari per l’opzione di una bella negretta albina, Figue Rafaeli. Il mediatore degli arabi, un oriundo italiano che si fa chiamare Lefty per ricordare il suo nome originale, prima li pernacchia, poi ci ripensa e accetta di svendere il negro viziato e rompiballe che, seppur campione, in termini di stress costa più di una Bentley mimetica.

Così Von Galljan, Ray O’la, Figue Rafaeli e Mario Django fanno ritorno nel vecchio continente attraversando la Manica su una nave negriera: Mario Django in prima classe, gli altri tre nella stiva, dove Figue Rafaeli si fa mettere incinta da Zlatan “Lo Zingaro”, un mandingo bianco con all’attivo solo la vincita di qualche premio minore, e che Ray O’la ha adottato nella speranza di venderlo ad un altro mercato tenuto da negrieri arabi, il San Germano di Parigi. Durante il viaggio, Tarantino confonde lo spettatore con alcuni flashback in cui Lo Zingaro appare vestito con divise di diversi colori e si intuisce che tra Von Galljan e Zlatan, per motivi a noi sconosciuti, non corre buon sangue. E ad un certo punto è proprio il sangue a farla da padrone sullo schermo: la nave negriera attracca a Calais e a Figue Rafaeli si rompono le acque. Qui il colpo di scena: lei non è incinta dello Zingaro, ma di Mario Django che nonostante venga avvisato da Von Galljan della sorpresa paternità, non vuole lasciare la prima classe per scendere nella stiva, sbatte i piedi, lancia un petardo, ordina un Dom Perignon Vintage 2002, impenna con il tavolino del bar, paga tre whiskey a un neonato, compra una Fiat 500 Abarth SS da un poeta fiorentino del ‘200 di nome Lapo, pagandola solo duemila euro in cambio della promessa di mettere la testa a posto e un incondizionato amore per Torino e la fede bianconera. Mario Django accetta e ridendo spara tre colpi con la scacciacani al pianista.

Ray O’La si offre di adottare il bambino, a patto che riesca a palleggiare per 15 minuti con un ferro da stiro, ma al momento del parto si scopre che è una bambina. “Per giunta senza tette!” escalama Von Galljan “manco buona per venderla al nostro padrone”. “Mettiamola nella fornace!”, urla il servo schifoso Ray O’La. A quel punto, ravveduto, arriva Mario Django: “Fermi! Aspettate! La voglio vedere anche io la cosa della bimba nella fornace!”, ma Zlatan, che ancora era convinto che quella fosse sua figlia, prova a salvarla dall’infausto destino e, strappandola alla madre, la lancia in aria e di collo pieno la scaglia contro Mario Django, che la stoppa di petto e caricando il destro si appresta a mirare all’incrocio dei testicoli dello Zingaro. A quel punto appare in alto tra i docks del porto di Calais Padre Pio. E qui una caduta di stile di Tarantino, che con questa cazzata pretende di giustificare il nome della bambina: Pia.

Memorabile la frase di Mario Django che, alla fine del film, dimostra di essere unico, speciale: il solo negro su diecimila negri: “Fin da bambino ho desiderato indossare questa maglia”.

Era nudo.

* © Spike Lee