Tra pochi giorni compirai gli anni e, per la seconda volta nella nostra vita, non saremo insieme. A dire il vero, non so neanche perché scrivo questa lettera, sapendo già che non te la invierò mai, anzi, la pubblicherò senza dirtelo. Forse un giorno la leggerai, quando sarai più grande, un giorno te ne metterò al corrente. Forse è più un mio bisogno di espiazione, che un  reale desiderio di comunicare con te.

Tutto sommato, penso di essere stato un bravo padre, non sempre mosso da propositi pedagogici, questo è vero, ma mi sono impegnato per farti raggiungere tutti i traguardi necessari a un bambino per il suo sviluppo, la sua indipendenza e la sua autostima. Hai ragione, se non fossi stato già così ubriaco da non poter raggiungere il frigo per prendere dell’altra birra, forse, non ti avrei mai insegnato a camminare, ma l’ho fatto, è questo che importa. Hai cominciato a camminare a solo 8 mesi, grazie al tuo impegno e alla mia cocciutaggine. Hai imparato a distinguere la Heineken, verde, dalla Peroni, in bottiglia. Ti ho aiutato a sviluppare le capacità sensoriali: il freddo pungente della lattina e il fresco piacevole della bottiglia e, quando capitava che tu facessi cadere un bottiglia nel portarmela, non mi sono mai, mai arrabbiato. Magari vedermi leccare il pavimento della cucina non è stato uno spettacolo educativo, ma non ho mai urlato per una Peroni in frantumi.

Pian piano ti vedevo crescere ed ero orgoglioso di te. Mi ricordo che già a 5 anni eri molto più bravo di me nei videogiochi, e la tua gioia, quel pomeriggio, quando mi chiamasti per mostrarmi che, se picchi la troia a lungo, quella ti restituisce i soldi.

Certo, sarebbe stato meglio non dire alla mestra dell’asilo che giocavamo a GTA, ma dovevo pur spiegare da chi avevi imparato a sprangare i compagnucci per farti dare la merenda: avrebbe pensato che ti davo il cattivo esempio.

A parte qualche intoppo, cercavo di renderti un piccolo uomo, capace di vivere nella società, ti insegnai il codice penale, ti spiegai che se al supermercato ti mettevo la roba nel giubbotto era perché a te, i poliziotti – o come li chiamavi tu, gli sbirri di merda – non potevano farti nulla, eri piccolo e dolce. Non ti avrebbero mai arrestato, e poi eravamo bravissimi a fare la parte del padre severo che ti avrebbe punito e del bimbo pentito che non lo avrebbe mai fatto più. E difatti non lo facemmo più, mai due volte di fila nello stesso supermercato. Avevamo da imparare.

A 16 anni volevi già girare il mondo, ti capivo, e certo non sarei stato quel genitore che soffre la sindrome del nido vuoto, anzi, i viaggi te li pagavo volentieri. In 5 anni, grazie ai miei contatti, ti ho spedito in Colombia, in Thailandia,  in India. Hai fatto apprendistato a Goa; ok, forse è meglio non ricordarlo, ma ti giuro che non sapevo quello fosse territorio dei russi. Però ho pagato tutte le spese mediche: il dentista che ti ha ricostruito la mandibola e il ritorno in Italia, in barella. Ti sono stato vicino anche allora.

Ed è tutto, figlio mio, penso davvero di averti insegnato a stare al mondo, questo mondo. Ma non voglio che tu pensi che se in questi anni non ci siamo potuti vedere sia stato a causa del divorzio con tua madre. Molto più probabilmente è stato a causa di quel bastardo del giudice che ti ha revocato la condizionale. E finché io sono ai domiciliari, come faccio a fare il genitore?

Con affetto. Tuo padre.