Càpito davanti alla TV mentre in seconda serata una ragazza racconta brevemente la sua storia di successo. Parla di startup, di fondi europei, di app per smartphone. Lei è giovane, preparata e le sue idee hanno fatto il botto. Mi ritrovo a essere contento per lei, ogni tanto questi lieto fine ci vogliono, soprattutto coi tempi che corrono.

Poi il giornalista le fa la solita domanda banale, una domanda che se sei in diretta su una rete nazionale e hai una storia del genere per le mani non puoi non fare: cosa consiglieresti ai giovani a casa? Lei risponde, seguendo la melodia che tutti si aspettano, come al concerto di una tribute band. Bisogna darsi da fare, lavorare duro, non stare lì a lamentarsi, le opportunità ci sono. Ha chirurgicamente ragione.

Tutto d’un tratto però mi arriva addosso una sensazione di fastidio, che mi fa storcere la bocca, arricciare il naso, inarcare le sopracciglia e tutte quelle altre strane reazioni espressive che esistono più nella letteratura che nella fisiologia. Madonna, mi dico, sto rosicando! Ma come sono messo? Una ragazza racconta la sua bella storia di successo, in mezzo a tante macerie, e io reagisco così? Con spocchia? Con invidia? Perché lei è in TV che parla della sua impresa a qualche milione di persone e io sono in salotto a comporre quel qualche milione di persone? Non mi ricordavo così.

La mia faccia smette di essere quella specie di Picasso che dovrebbe essere se davvero alle parole corrispondessero i movimenti muscolari facciali, e i neuroni circondano quella sensazione di fastidio, intimandole spiegazioni. Non è lei, la ragazza, a provocarla; nemmeno la sua storia. Non è invidia. È la risposta a quell’ultima domanda, è il consiglio. Non quello che ha detto, per la precisione, ma quello che ha omesso, che ha taciuto.

Per ogni storia di successo ce ne sono 9999 di mancato successo. Uno su mille ce la fa poteva andar bene negli scarburati ma pur sempre lanciati anni Ottanta; ora però le proporzioni sono ben diverse. Un successo, 9999 insuccessi. Uno parla in TV, 9999 stanno a casa a sentire.

9999 che non si sono dati da fare? 9999 impreparati, lamentosi, non entusiasti, svogliati? No. Quella selezione è già avvenuta: erano centomila alla partenza. Molti hanno rinunciato, perché non avevano le capacità, perché non ci hanno creduto, perché alla fine si vive decentemente anche da spettatori. Ma quei diecimila lì erano tutti in corsa, potenziali vincitori, egualmente dotati. Un podio con diecimila primi posti, se il mondo fosse un luogo assurdamente giusto e statisticamente sballato.

L’unica cosa che è mancata a quei 9999 è stata la fortuna. Non vi piace chiamarla fortuna? Chiamatelo caso. Chiamatelo perfetto tempismo nell’incontro delle circostanze favorevoli. Chiamatelo destino, oroscopo, provvidenza. Alla fine sempre di culo si tratta. Il dettaglio, il non calcolabile, l’ingestibile, l’incubo del meccanicista, la speranza del giocatore di Superenalotto. 90% d’ingredienti controllati, 10% di culo. Anche 99% e 1%, se siete estremisti dell’homo faber fortunae suae. Fate voi, come sempre.

Nella ricetta che compone il successo la fortuna non si elenca mai, come il gas del fornello su cui cuocete il ragù nei libri della Parodi. Tanto non potete dosarla. Si darà per scontata, una volta che la ricetta sia riuscita. Altrimenti sarà mancata, ma non ve ne lamenterete. È la retorica del successo che vuole così: dire che l’avete costruito con le vostre mani, tacere che ha fatto la sua parte anche il vostro culo. Vincere con il favore del caso, anche quel poco, sa troppo di casinò, di slot machine.

Il caso però, favorevole o meno, è parte integrante delle nostre vite, e per quanto si riesca a relegarlo a percentuali ridicole, c’è. Allora facciamo così: chi vince, e racconta la sua storia di successo, ed è costretto a rispondere alla solita domanda banale sui consigli a chi ascolta da casa, lo dica apertamente che oltre alla passione, alle capacità, all’impegno, senza cui non si va da nessuna parte, ci vuole anche quel po’ di fortuna, per arrivare fin lì. E noi, spettatori da casa, promettiamo di non concludere sbrigativamente che è stata solo una botta di culo.

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