L’antefatto è noto.

Richard Dawkins, eminente biologo e divulgatore scientifico, è finito nei pasticci.

Si potrebbe pensare che c’entri qualcosa con l’etica e l’eugenetica ma è più probabile che c’entri qualcosa con Twitter, lo strumento del demonio che ha lo scopo precipuo di far sì che anche i calciatori più quotati tendano a rendersi ridicoli.

La tentazione di usare i social network come se fossero il salotto di casa è peraltro talmente irresistibile che il lungimirante governo nord-coreano propone da sempre l’amputazione delle falangi a chiunque superi i 140 caratteri al giorno.

La discussione inizia, da quel che si può capire, quando tale Aidam McCourt chiede: «994 esseri umani con la sindrome di Down sono stati deliberatamente uccisi in Inghilterra e nel 2012 prima della nascita. E questa me la chiami civilizzazione?».

La domanda è faziosa e non ci vuole Goldrake per capire che Aidam McCourt è della falange pro-life. Parla infatti di esseri umani, di uccisione deliberata, e inoltre indossa una camicia ben stirata.

Dawkins risponde quindi, un po’ stizzito (ma io Dawkins me lo immagino sempre un po’ stizzito): «Certo che si può parlare di civilizzazione. Si trattava di feti, a cui era stata diagnosticata la sindrome di Down prima ancora che sviluppassero sentimenti umani».

Qui Dawkins introduce la classica distinzione feti/persone tanto cara alla letteratura pro-choice e che si può riassumere nell’adagio popolare secondo il quale una ghianda non è una quercia. Avete mai provato ad uscire con una fidanzata potenziale? Tendenzialmente ve la dà, ma solo in potenza.

A quel punto interviene InYourFaceNewYorker in umore cogitabondo: «Richard e Aidam, Non so onestamente cosa farei se fossi incinta di un bambino con la sindrome di Down. Sarebbe un vero e proprio dilemma etico per quanto mi riguarda».

Ed è qui che Dawkins tira fuori il meglio di sé, l’utilitarismo in versione hashtag.

Facciamo un passo indietro e precisamente al 1789, anno in cui Jeremy Bentham, discontinuo attaccante ex Paris Saint Germain, pubblica il suo seminale Introduzione ai principi della morale e della legislazione. È l’atto di nascita dell’utilitarismo, la teoria etica secondo la quale il criterio del giusto e del buono è la «massima felicità del maggior numero».

Va detto che Geremia all’inizio aveva in mente qualcosa di diverso. Sono i governanti (e non i governati) a doversi sbattere per massimizzare. Il cittadino comune tendenzialmente se ne fotte, come è peraltro giusto che sia (i filosofi morali parlano rispettivamente, a questo proposito, di egoismo etico e psicologico, concetto che viene ripreso da Vasco Rossi nell’hit Cosa succede in città. «Egoista certo, perché no? E perché non dovrei esserlo? Quando c’ho il mal di stomaco, con chi potrei condividerlo?»).

Col tempo tuttavia molti utilitaristi si sono convinti che fosse dovere di ciascuno di noi massimizzare la felicità del maggior numero, il che, ne converrete, è una grandissima rottura di palle («Andiamo a cena fuori?» «No, scusa, stasera massimizzo»).

Questo è il contesto filosofico che Dawkins ha in mente, come puntualizzerà anche nello spiegone successivo («if your morality is based, as mine is, on a desire to increase the sum of happiness and reduce suffering… »), passato alla storia come «le cosiddette scuse» .

Ovviamente gli utilitaristi si limitano a fare previsioni, e le previsioni si sa, sono fallibili. Non c’è certezza che la vita di Maurizio Gasparri sia meno felice di quella di Rocco Siffredi, ma così, a naso, è possibile farsi un’idea.

Henry Sidgwick (e qui volano parole grosse) sosteneva che la moralità di senso comune non è affatto incompatibile con l’utilitarismo ma che, anzi, tendiamo tutti a ragionare in termini del genere, sia che ne siamo o meno consapevoli.

È la stessa teoria del buon Richard che infatti poco dopo aggiunge: «E quindi sarei un mostro per aver suggerito di fare ciò che *già* si fa con la stragrande maggioranza dei feti che hanno la sindrome di Down: vengono abortiti» (sembra quasi di poter leggere tra le righe anche un: «sveja!1!»).

Veniamo quindi al punto finale: la doppia morale.

Da tutto il can can che si è scatenato si evince che è perfettamente lecito abortire un embrione con la sindrome di Down (d’altronde a cosa servono le diagnosi pre-impianto? a farsi un giro a Berna?) ma non è lecito teorizzare che si debba fare.

La prima associazione che è venuta in mente a tutti è «eugenetica» e la prima associazione, fateci caso, è quasi sempre una cazzata. L’eugenetica era la sterilizzazione coatta di persone non consenzienti per un presunto e delirante scopo di purificazione della razza. L’aborto selettivo (o «terapeutico», se vi piacciono gli eufemismi) è già pratica comune e di norma chi sceglie di ricorrervi non va in giro con una svastica tatuata in petto (sarebbe troppo palese, di solito se la tatuano in punti più tattici).

«L’indignazione è l’arma che Dio ha dato a quanti erano sprovvisti di comprensione», come recita Ezechiele 25:17. Ma se i giornalisti che si sono gettati sulla preda al grido di eutanasiaderivaeugeneticaHitlerSiegHeil non ci fanno un gran figurone va detto che pure a Dawkins bisognerebbe ricordare che «levateje il vino», coi tempi che corrono, è stato sostituito da un più sobrio «levateje l’internet». Affinché non ci diventi un Mario Balotelli qualsiasi con un cannone in mano e un grande bacio a chi vuoi tu. Faccia quindi pubblica ammenda e lo scriva chiaro e tondo: «viva i Down, viva Lenin, viva Mao-tse-tung».

[artwork by aMusoDuro]