Le scuole elementari che ho fatto io, a Milano, non erano proprio all’interno della cerchia dei Navigli, ma non erano neanche in una zona socialmente disagiata. A parte il fatto che, al posto della foto di fine anno, venisse la polizia a farci l’identikit, io mi trovavo bene. Poi, le cose della vita che mi hanno portato a vivere fuori dall’Italia, probabilmente, sono le stesse che mi hanno fatto sposare una donna non italiana e mettere al mondo un figlio nato in un paese che non era né il mio, né quello della madre. Il motivo era semplice: ero perennemente strafatto e non capivo mai dove cazzo mi trovavo. No, vabbe’, non sono qui per parlarvi di questo… Per cosa sono qui? Oddio, non dirmi che devo aspettare che mi scenda la bamba per finire questo pezzo. Ho appena cominciato, cazzo! Un attimo che rileggo. Ah, ok, ci sono.

Mio figlio è nato in un Paese in cui adesso c’è il coprifuoco e lo stato di emergenza. Analisti politici prospettano una guerra civile a breve e anche quando c’è nato lui, 12 anni fa, camminare per strada aveva un certo fascino: un kamikaze, se eri fortunato, poteva sempre abbronzarti. Quando aveva 6 mesi ci siamo trasferiti in un paese dove c’erano dai 4 ai 5 terremoti al giorno, impercettibili, a volte. Altre volte invece si percepivano piuttosto bene. Mi ricordo che una notte sognai di essere su una barca e che questa barca ondeggiava e ondeggiava sempre di più, talmente forte che a un certo punto mi svegliai e trovai mia moglie seduta sul letto: era tutta la casa che ondeggiava. All’asilo facevano esercitazioni anti terremoto, ne sapevano di più lui e i suoi amichetti giapponesi, indiani, australiani, neo zelandesi, inglesi, tedeschi e americani su come ci si comporta in caso di terremoto e tsunami che non io, che quando tremava il tavolo correvo a mettere in salvo la vodka e il gatto, casomai volessi uno spuntino col drink. Imparò a inchinarsi quando riceveva un regalo, a togliersi le scarpe quando entrava in un parco giochi al coperto o in un’appartamento altrui e a mangiare con le bacchette. Imparò che al mondo esistono lingue diverse dalle sue. Ne aveva due in famiglia: l’italiano e il tedesco, più l’inglese all’asilo. Quando un giorno io e la madre, ad una sua simpatica uscita in inglese, pensando che non lo capissimo, rispondemmo sicuri, lui ci guardò sospettoso e abbassando le sopracciglia in italiano mi disse: “Perché parlate la lingua dei bambini?”. Per lui tutte le mamme del mondo parlavano tedesco, tutti i papà parlavano italiano e i bimbi, be’, i bimbi parlano inglese, la lingua dell’asilo.

Una volta finito il periodo giapponese siamo tornati in Europa, a Berlino. Era fine agosto 2006. La scuola elementare è bilingue: italiano e tedesco. È un progetto europeo. A Berlino, e penso in Germania, ce ne sono di diverse: tedesco/turco, tedesco/polacco, tedesco/russo, non sono private, come pensavano alcuni miei amici, esistono da una decina d’anni e costano come una statale italiana, ma senza doverti portare la carta igenica da casa. Dicono che serve all’integrazione, boh.

Era fine agosto 2006, dicevo. L’italia aveva appena vinto i mondiali di calcio, ricordate? E certo che lo ricordate, non vi ricordate il compleano della vostra fidanzata, ma Grosso – Del Piero ce l’avete scolpito nel cuore, bastardi. All’entrata della scuola, Finow Grundschule, Schoneberg, 10777, Berlin, Deutschland, il primo giorno, c’erano bambini biondi, con gli occhi azzurri che parlavano in tedesco e indossavano la maglietta di Totti. Giuro. Quella scuola, a onor del vero, non è stata una grande scelta, ma questo è dipeso più dalle maestre, due per classe, una italiana e una tedesca, che dal metodo. Questione di fortuna. Ora, che è alle medie, si trova in una scuola internazionale in India. Avevo paura che passando da una scuola di 600 alunni a una di 100, 6 studenti per classe, si trovasse male, e poi non ha più amici italiani: c’è lo stesso mix di razze che aveva a Tokyo, ma appena arrivato mi ha detto: “Sai papà, preferisco questa scuola a quella a Berlino. Le maestre sono più attente, facciamo cose più interessanti e… Papà, ti sto parlando, la smetti di tirare su quella roba bianca col naso?”.

Insomma, io questi genitori che tolgono i figli dalle classi perché ci sono i bimbi stranieri o il bambino autistico, davvero non li capisco.

In fondo basterebbe stargli vicino, ascoltarli, dare il buon esempio.

E poi che non ti venga su un drogato di merda.