L’estate sta finendo. E anche se avete la morte nel cuore e il segno del costume ancora ben netto, niente e nessuno può scongiurare l’arrivo dell’equinozio d’autunno, a meno di un radicale intervento sulla meccanica newtoniana, il quale, però, è alla portata di gente come Einstein, mica come voi (cosmologi esclusi, ovviamente). Perciò rassegnatevi, mentre fischiettate il Pulcino Pio in attesa che i vostri neuroni vadano in pasto al successivo Ohrwurm. In fondo non potete proprio lamentarvi: il riscaldamento globale – che tutti noi dovremmo ringraziare – vi ha offerto più di tre mesi di sole e afa, distruggendo raccolti, prosciugando riserve idriche e donandovi quella pregevole doratura da esibire ai matrimoni di fine stagione. Poi, fra poco, si andrà giù di lampade UVA.
In spiaggia è continuata l’escalation dei costumi femminili: dopo bikini, monokini, minikini e microkini si è visto – si fa per dire – il picokini, cosa che lascia presupporre, per l’estate 2013, la moda del femtokini, ulteriore passo avanti in quella ricerca sub-atomica del fashion che ha il suo limite solo nelle dimensioni di Planck. Per quanto riguarda quelli maschili, e viene da dire per fortuna, ci si è limitati al solito pantaloncino o alla mai sconfitta mutanda.
È stato anche l’anno in cui l’elettronica di consumo, ovvero quella serie di dispositivi con sufficiente potenza di calcolo da pianificare una missione della Nasa, ma su cui di norma il consumatore medio fa girare il solitario, ha fatto il suo prepotente ingresso sotto l’ombrellone. L’anno scorso, forse perché ce n’erano ancora pochi in giro, o forse perché i manuali d’istruzioni affermavano che il caldo, l’umidità e la polvere potevano danneggiarli, o magari per quell’ultimo bagliore di saggezza per cui ci si chiedeva “cazzo ci faccio in spiaggia?”, di bit on beach (espressione che ho appena inventato, quindi sarà nello Zingarelli 2013) se ne videro abbastanza pochi.
Quest’estate invece, il caldo, l’umidità e la polvere – in spiaggia? Quando mai? – hanno smesso di rappresentare un pericolo, grazie alla falsa percezione della sicurezza data dalle custodie, inoltre i prezzi sono più accessibili. Naturalmente, è inutile negarlo, siamo anche tutti più imbecilli, rispetto a un anno fa: quel tanto che basta per togliere da borse e zaini Cronaca vera, racchettoni e coccodrilli gonfiabili, per riempirli con smartphone, tablet e netbook. E la Settimana enigmistica.
E allora si gioca ad Angry Birds Space sul bagniasciuga, si fotografa il mare limpido per fare invidia agli amici di Facebook – poi invece l’avete presa su Google, la foto, perché oggi il mare sembra un caffellatte, e non per le temperatura – si legge a fatica un’altra e-paginetta di Infinite Jest, disegnando su tutti gli schermi touch che i vostri polpastrelli sfiorano, complice quella sabbia finissima che vi massaggia i piedi, la nuvola elettronica dell’uranio 238.
Avanti così! Con le ferie digitali, la spiaggia 2.0, lo shadow-sharing (cfr. Zingarelli 2013). Avanti così, almeno finché regge la batteria. Perché l’elettronica di consumo, questi touch, questi e-qualcosa, hanno solo un lieve e comune difetto: che la batteria – “solo se li usate”, recita con acutezza il manuale – dura una vita, di farfalla però. Una giornata di mare la reggono, fosse anche solo per illudervi; poi però bisogna ricordarsi, quando si torna in albergo, in camper, in bungalow, di metterli in carica. Ma le vacanze non sono fatte per ricordarsi le cose, quello casomai è il lavoro: in ferie ci si concentra sull’aperitivo, ed è già un bello sforzo. I device restano nei borsoni, dimenticati, con il simbolo della batteria che comincia a lampeggiare proprio nell’istante in cui ve li riponete. Giacciono lì, quasi completamente scarichi, pronti per una giornata di mare irta di bestemmie e noia mortale. Perché poi, il Bartezzaghi, senza Wikipedia, chi lo sa fare?