Roma è piena di meraviglie, che troppo spesso noi nativi conosciamo solo di vista. Dentro che c’è? Di che sa? Boh! Bisogna assaggiarla, toccarla.

Voglio dire: avrete visto quante belle fotine pubblichiamo noi romani sui social network. Sapete, quelle con le piazze, il Tevere, le cupole, il travertino, il cielo striato d’arancio e indaco e le didascalie tipo “Sei sempre ‘a mejo”, “Sei magica”, “Milano me leggi?”.

Ok, ma provate a chiedere a un romano dove sia la Rupe Tarpea. Io l’ho fatto, e la rupe era proprio dietro di lui. Gliel’ho indicata e m’ha detto:

– Ma dai! C’avevo visto Alemanno appoggiato lassù ‘na vorta, sai? Alemanno sì, te lo ricordi Alemanno?

Siamo orgogliosi del fascino del puttanone trasandato che abbiamo ereditato, sì, ma tendiamo sempre a rimandare qualche visita approfondita; anche i sindaci.

Un po’ è pigrizia, un po’ sufficienza, un po’ delle priorità diverse che ci diamo: sabato no che dormo, domenica no che c’è la partita, in generale no che piove; se nevica, poi, non ne parliamo.

Tutto vero, ma mettiamo subito da parte la nostra proverbiale indolenza quando veniamo a sapere che qualche barbaro ubriaco ha fatto qualche schifezza a casa nostra come violentare una fontana. Allora cerchiamo subito su Wikipedia chi l’ha fatta, ci dedichiamo alla sua storia per una ventina di secondi, stringiamo i pugnetti, diventiamo tutti rossi e scriviamo commenti indignati e storicamente molto ben informati, punendo i colpevoli con indimenticabili sferzate.

Ci sentiamo cittadini privilegiati senza approfondire la conoscenza della nostra città, finché giunge qualcuno, o qualcosa, che ci titilla l’orgoglio, che ci esorta a “seguir virtute e canoscenza”, e allora scattiamo a cazzo dritto verso le rovine, le chiese, le piazze, i palazzoni maestosi e le file interminabili ai musei gratis.

Non avendo mai visitato un certo palazzone maestoso, il Palazzo dell’Anagrafe, il Monumento ai Fogli Caduti, ho colto subito al volo l’invito di Equitalia a ritirare lì un atto.

E così via, a cazzo dritto, orgoglioso, verso il Purgatorio.

Virgilio è morto e neanch’io mi sento tanto bene, ma dopo aver divorato una pizzetta rossa, un bicchier d’acqua e un caffè doppio sono pronto a qualsiasi impresa, anche da solo, mi dico. Sono le otto di mattina e all’apertura dello sportello per ritirare gli atti mancano venti minuti. Non riesco a contenere il palazzo in uno sguardo: un ettaro e mezzo calpestabile, edificato nel 1937 sul progetto razionalista di Cesare Valle. Un cubo di cubi. Ci lavorano 300 persone che producono 3 milioni di certificati l’anno (fonte: Wikipedia). Mi dico che questo non è un posto per turisti, questa è roba da romano vero, mi dico.

Chiedo all’usciere dove devo andare. È intrappolato in un gabbiotto ricoperto da decine di fogli sciatti fissati con lo scotch dall’annoiato dio della burocrazia; lui è ricoperto dal Corriere dello Sport. Lo abbassa. So che è un gesto eccezionale che sta facendo solo per me, so che ha la mappa del labirinto e sorrido per gratitudine. Avrà alle spalle una settantina d’anni e qualche decina di migliaia di giorni passati a sciacquarsi il viso quando fuori è ancora buio. La sua giacca è economica e troppo grande, ma le sue parole, fortuna mia, sono su misura. Virgilio non è proprio morto, è che non se la passa un granché.

– Buongiorno, devo ritirare un atto, dove devo andare?

– Ciao bello! Vedi là ‘n fonno? Prima del vetro, gira a destra e me raccomanno, mantieni la destra. Occhio, che a sinistra te parte subito la corsia per la fila, ma c’è il separatore e se te infili lì te tocca ritorna’ ‘ndietro, perdi posizioni e SEI FINITO! Superi la macchinetta der caffè e piji ‘r numeretto. Me raccomanno: spingi sur verde che tutti se ‘ntignano su’a freccia rossa. Poi torni indietro e te infili in fila coll’artri. Tra poco aprono.

– Grazie mille.

– Ciao bello!

Giro l’angolo.

Sembravano le indicazioni per un lungo percorso, era una mappa dettagliatissima di al massimo una trentina di metri quadri.

Sul distributore ci sono un pulsante verde, cerchiato più volte di rosso con un pennarello, e sotto una freccia rossa, che è quella che indica da dove esce il numeretto. Pigio sul verde, pesco il numero e aspetto, sperando che l’8 che ho in mano non sia un infinito dimenticato in piedi.

Passo qualche minuto a guardare intensamente le altre anime che arrivano: pigiano davvero sulla freccia rossa. Lo fanno con insistenza, davvero in tante. Qualcuno s’incazza. Qualcuno aiuta. Ero allegro prima di queste scene, prima di capire in che situazione fossi davvero finito.

Mi viene in mente Jack Nicholson, che entrando nel manicomio di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è contento di essersela cavata dalla guerra; e penso a Stefano Fassina, che uscendo dal PD era tutto contento di fondare un partito nuovo. E invece.

Penso: magari non siamo noi anime, è il genius loci. E invece non l’avevo ancora incontrato, il genius loci.

Saremo ormai una quarantina di matti quando gira l’angolo un vecchio. È altissimo ed enorme. Ha il cappello, i capelli tinti, nerissimi lunghi e appiccicosi, gli occhiali con le lenti da sole, indossa un abito liso color cammello e una delle scarpe ha la suola spessa quattro dita. Cammina a fatica, facendo molto rumore.

È Antonello Venditti, ottuagenario, messo malissimo, fuso col mostro protagonista di quel film di Mel Brooks in bianco e nero. È il sonno della mia ragione, che si fa sentire.

Si avvicina per chiedere qualcosa a uno e quello gli va incontro, gentile e coraggioso. L’enorme vecchio biascica, con voce impastata, mentre sembra leccarsi a ripetizione il palato, come quando hai assaggiato qualcosa di disgustoso che vuoi scacciare:

– Caro, che sai se c’è un bagno?

– Sì, certo. Vede, lì c’è l’indicazione.

– Ah! Anvedi. Grazie caro, è che devo fa’ na cosetta urgente.

Credo di aver solo inarcato un sopracciglio, ma quando ho notato che dalla tasca della giacca gli spuntava qualcosa di porno, un giornaletto forse, si è generato un tic all’occhio destro che non mi abbandonerà mai più.

Passano pochi minuti, o forse vent’anni, e il vecchio gigante risbuca dal corridoio. Dice:

– Oh, er lavandino pe’ lavasse era rotto.

Ridacchia. Noi altri matti, no.

Lo sentiamo bene tutti, nel frattempo diventati un girone d’una cinquantina d’anime perse, e nella mia memoria quelle parole verranno sempre prima dei contenuti di quell’atto giudiziario, che vi risparmio.

Tornato a casa, dopo, ho ricontrollato bene su Wikipedia, ho comprato una Lonely Planet e mi sono anche riletto tutti gli articoli di Bell’Italia su Roma, ma niente, non c’era nessun accenno al gusto vero di questa città.