Il mio nome è Bruce Banner, e questa è la mia storia. La storia di come sono entrato a far parte della League, la North League. La Lega Nord.

Ero uno qualunque. Una casa, una famiglia, un lavoro. La domenica in chiesa, il giovedì a trans. Gli amici del bar, la pesca, la politica solo quando c’era da votare. Di solito socialista. Ero uno qualunque immerso nella qualunque grigioverde umidità del grande nordest.

Non mi sembrano nemmeno miei, questi ricordi, tanto le cose sono cambiate, andate in pezzi. Sembra la vita di un altro. E forse lo è: Bruce Banner è morto quel giorno nell’incidente, e ora è solo un fantasma nella mente di Hulk.

Non ricordo il giorno esatto e nemmeno l’ora. L’imprevisto non ha una tabella di marcia, e di certo non te ne stai a guardare l’orologio mentre ti annienta, soprattutto se è uno di quelli con le lancette che non si capisce mai che ora è.

Alla Moncherini srl di Diamine Alta era una giornata di lavoro come ogni altra. Facevamo valvole termoioniche. Quasi tutta la produzione finiva negli Stati Uniti. Non ho mai capito cosa ci facessero, gli americani, con le valvole termoioniche. Non ho mai capito a cosa servissero, in verità, le valvole termoioniche. So solo che quel giorno Rick, il marocchino, non c’era, così dovevo occuparmi io del forno a raggi gamma. Non che fosse un problema, l’avevo fatto tante altre volte.

Porto dentro un carrello di valvole da cuocere, programmo il timer e mentre sto chiudendo vedo per terra, nel forno, la mia penna dell’Atalanta, quella autografata da Caniggia. Entro e mi piego a raccoglierla. Quando mi tiro su sento il clanc del forno che si chiude. Corro alla maniglia d’emergenza, ma quella mi resta in mano. Provo a gridare. Niente. La procedura di cottura si avvia. Una luce accecante è l’ultima cosa che ricordo, insieme all’ultimo pensiero: vaffanculo a Caniggia.

Mi risveglio in un letto d’ospedale. Accanto a me Alberto Moncherini cerca di farmi stringere in mano una penna perché gli firmi un foglio che lo scagiona da ogni responsabilità. Mia moglie è ai piedi del letto, in lacrime. Non vedo Claudio, nostro figlio. Sorrido, ma lei scappa inorridita. Succede sempre. Non ho mai avuto un bel sorriso. Moncherini mi ringrazia per lo scarabocchio, lascia un mazzo di fiori con un biglietto (che recita “Grazie Michela per tutto quello che mi hai fatto l’altra notte”) e se ne va. Non si è nemmeno ripreso la penna. Che bella penna. Di classe. E che bella mano. Verde. La penna nera. La mano verde. No, ‘spetta un attimo. Come verde? Pure l’altra è verde. E le braccia! E le gambe! Cazzo. Sì, anche quello, ma anche nel senso di Cazzo, sono tutto verde!

I medici mi tranquillizzano, quel colorito atipico scomparirà entro poche ore, è una reazione dell’organismo all’esposizione gamma. Altre conseguenze non sembrano esserci. Mi tengono in osservazione 24 ore e quando esco ho di nuovo il pallore tipico della nebbia padana.

Chiamo a casa per farmi venire a prendere con la macchina ma non risponde nessuno. Allora chiamo dalla finestra, tanto abito lì di fronte. Niente. Alla fine desisto e vado a piedi. Attraverso la strada e sono a casa, ma la trovo vuota. Un biglietto di mia moglie sul tavolo della cucina: “Scusa Bruce, ma tu sei verde e quest’anno va il viola. Claudio e io ce ne andiamo da mia madre per un po’. Non cercarci. PS: sei verde, cazzo, sei verde!”. Dannata schiava della moda. Qualcosa dentro di me inizia come a bollire. Strappo il biglietto e apro il frigo. Su un ripiano c’è una bottiglia di vino rosso. Vino rosso in frigo. Non a temperatura ambiente. In frigo! C’è del cazzo di vino rosso in frigo!! La testa mi pulsa, tutto diventa indistinto, poi il buio.

Riapro gli occhi su una panchina dei giardini pubblici. È sera e ho freddo. Sono in mutande. Non ricordo niente. Sulla panchina accanto alla mia russa un senzatetto. Grido Va’ a laurà, barbùn! e gli rubo i vestiti. Torno a casa. Ma casa mia non esiste più. Manco fosse in via Gluck. Ora al suo posto c’è una specie di voragine. L’edificio è a pezzi, squarciato, come bombardato. Lampeggianti e giornalisti ovunque. Una gru sta tirando giù dal tetto del palazzo di fronte un frigorifero. Il mio.

Inizio a intuire qualcosa: c’è di mezzo Al Qaeda. Ma nel dubbio è meglio informarsi. Mi allontano un po’ e chiedo a un gruppo di quattro pensionati riuniti attorno a una recinzione dei lavori in corso rimasta lì per sbaglio. Mi raccontano undici versioni diverse dei fatti, ma in tutte c’è sempre come protagonista un mostro verde incazzato che spacca tutto. Un mostro verde. Devono essere ubriachi, ‘sti vecchi. Li copro d’insulti e me ne vado facendo dei gestacci. Razza di beoni idioti.

Per fortuna ho ancora la macchina parcheggiata in fabbrica. Con mezz’ora a piedi ci sono. Entro a recuperare le chiavi dall’armadietto. Quei pochi del turno di notte mi guardano senza fiatare, con gli occhi di fuori, manco fossi un fantasma. Fare la notte alla lunga ti brucia il cervello.

Passo davanti al forno dell’incidente. Lo sportello è aperto. Noto in terra una macchia coi colori dell’Atalanta. Blackout.

Mi risveglio in un fosso in aperta campagna. Non ho cicatrici post-trapianto, quindi mi tranquillizzo. Solo non ricordo niente. E sono in mutande. Inizio a sospettare di avere un alter ego che si prostituisce. In compenso nelle mutande ho le chiavi della macchina. Bene. Picchio un barbone che era lì per esigenze di sceneggiatura e gli rubo i vestiti. Mi oriento e vado verso la Moncherini a prendere l’auto. Quando arrivo lì al posto della fabbrica trovo un mucchio di macerie circondato da pompieri, polizia e (evidentemente un po’ troppo in ritardo) la Guardia di finanza. Sento alcuni giornalisti parlare di un mostro verde incazzato. Come quello del mio palazzo. Che idioti! Adesso viene fuori che ce ne sono due, di mostri verdi incazzati! Ma cosa li pagano a fare i giornalisti?! Branco d’imbecilli.

La macchina è sana e salva, giusto un po’ di polvere. Mi dirigo in centro. Al retrovisore non ho una bella cera: devo smetterla di dormire all’aperto in mutande. Ho un colorito verdognolo: qualcosa che ho mangiato, di sicuro. Nel dubbio, meglio fare un salto in farmacia. Che ho pure un gran mal di testa.

Al semaforo arriva un tizio che vuole lavarmi i vetri. Gli dico di no. Insiste. Gli dico di no. Insiste. Gli dico di no, che non mi faccia arrabbiare. Insiste. Blackout.

Riapro gli occhi su un divano, con una coperta addosso. Sono di nuovo in mutande. Il problema vero è che sono sempre le stesse. Non ho idea di dove sia, né di cosa sia successo. Mi trovo in una specie d’ufficio. C’è un grosso tavolo da riunioni. Sulla parete un poster con su disegnato un cavaliere che punta la spada in alto. C’è un sacco di verde. Non nel senso delle piante (c’è giusto una pianta grassa in mezzo al tavolo), proprio del colore. Gli arredi, i muri. Molto verde. E mia moglie che diceva che andava il viola. Magari è daltonica. O forse è solo idiota. D’altronde è meridionale, cosa ti puoi aspettare?

Entrano tre uomini, seri, eleganti. Non si presentano nemmeno. Uno di loro, con una voce gutturale, quasi ruttata, mi dice di sedermi. Sembra il capo. Ha capelli neri e mossi, porta un paio di occhialoni da vista. Parlerà solo lui. Degli altri due, uno è più giovane, baffetti, occhiali colorati, l’altro e più vecchio, parecchio più vecchio, pelato, inquietante. Mi siedo.

Quello giovane mette su una videocassetta e accende la tv. Mi fanno vedere la scena di un film in cui un gigante verde lancia automobili e sradica alberi e spacca tutto quello che trova. Il genere non mi attira ma per gentilezza chiedo:

– Che film è?
– Sei tu.
– Scusi?
– Si tratta di una ripresa amatoriale di quello che è successo questa mattina all’incrocio tra via Manzoni e via – mostrando una smorfia – Garibaldi, a Diamine Alta. E quello sei tu, o almeno è ciò in cui ti trasformi quando t’incazzi.
– Guardi, avete sbagliato pers…
– Guarda le mutande. (mette in pauda il video)
– Sono uguali alle mie…
– Non sono uguali, sono le stesse. Quello sei tu, Bruce. Ora ti spiegherò quello che è successo.

Mi dice dell’incidente alla Moncherini. Dei raggi gamma. Della mutazione. Mi racconta cos’ho fatto alla mia casa, alla fabbrica, al lavavetri. Quando finisce sono distrutto, annientato. Chiedo cosa ne sarà di me? Mi rinchiuderanno? Diverrò una cavia? Un concorrente di Uomini e Donne?

– Stiamo formando una squadra.
– Una squadra?
– Meglio ancora: una lega. Ce ne sono altri come te, Bruce. Con altre qualità, con diversi poteri. Poteri di cui abbiamo bisogno per far trionfare la giustizia e la libertà. Vi stiamo radunando, vogliamo aiutarvi, darvi una casa, una strada da percorrere.
– Ma io non so nemmeno controllarmi. Sono solo un pericolo.
– La tua rabbia verde è una risorsa. Noi t’insegneremo a gestirla, a coltivarla, a dirigerla verso gli obiettivi giusti: i terroni, i negri, i froci, la Comunità europea, la maledetta Roma ladrona! Affidati a noi, Bruce, alla North League, e nel giro di qualche mese avrai il completo controllo sul mostro verde che è dentro di te, e non te ne dovrai più vergognare, non dovrai più temere il giudizio delle persone. Potrai gridare, ruttare, spaccare tutto quello che vuoi, e lo farai alla luce del sole, in nome di un ideale, sventolando la nostra bandiera.
– …
– L’alternativa è una vita di vagabondaggi, di fughe, nel timore costante di fare del male a qualche innocente, di cedere alla rabbia incontrollabile, braccato, ricercato, abbandonato da tutti…
– …
– …senza affetti né legami di alcun tipo. Vivo solo biologicamente, ma morto nell’anima, senza speranza alcuna. Ti trascinerai in un’esistenza meschina per qualche anno, ma alla fine cederai e impazzir…
– Ok, ok, ci sto, basta così! Mi aveva già convinto con quella cosa del darmi una casa.
– Magnifico! Ora dobbiamo muoverci. Capitan Padania ci aspetta al covo di via Bellerio.
– Capitan Padani?
– Ti spiegherò strada facendo. A proposito, indossa questi, sono pantaloni elasticizzati, così non resti in mutande ogni volta.
– Ah, graz… ma sono viola!
– Beh? Sono alla moda.