– “Ho dato le dimissioni. Ok, sì, sapevo che questo stage era retribuito con gli aiuti umanitari della FAO, però non sapevo che il mio capo soffrisse di schizofrenia. Né che una delle sue personalità fosse Annamaria Franzoni”.
– “Be’, dai, hai fatto bene ad andartene, anzi, ci hai pure perso tempo!”.
– “Scherzi? Io mi sento in colpa da morire, Ester! Con questa crisi era pur sempre un lavoro! O perlomeno un’esperienza da mettere nel curriculum per trovarne un altro! Sono così debole, mi dico magari avrei potuto essere più conciliante con il mio capo nonostante i suoi… eccessi! O almeno togliergli il mestolo di rame dalle mani…”.
Mi piacerebbe finire questo tipo di discussioni dicendo che i desaparecidos in Argentina se la prendevano per molto meno, però sono anche stufa di sentirmi rispondere no scusa, io non seguo il canale Onda Latina.
Sappiamo tutti benissimo che alla base delle stronzate che combiniamo si trova l’egemonia culturale gramsciana della destra, la quale ormai ci sovrasta da trent’anni. Penso anche per i prossimi trecento a giudicare dalla scaletta dei cantanti al concerto del Primo Maggio. Ebbene sì tesoro mio: se in questo momento pensi che Renzi è finalmente ciò che serviva alla sinistra per governare l’azienda Italia, tu sei vittima di questa egemonia, quindi la prossima volta che ti dico di mettere la Rettore al posto di Guccini in macchina non lasciarmi all’autogrill. Quello che rimane da capire è cosa ci ha così tanto mutati rispetto ai nostri genitori sindacalizzati, cosa è stato così suadente alle nostre orecchie. Sì ok la politica, gli editoriali dei vari Oscar Giannino, ma qui stiamo parlando di una trasformazione sociale dirompente che ha riguardato tutte le classi sociali. Ci deve essere stato qualcosa che ci ha sedotti in massa, che ci ha catturati prima ancora di potere capire che era una trappola. Io so che l’influsso malefico proviene dalla tv, quella della nostra infanzia, ovvero il periodo in cui tutti sono più vulnerabili. Sono quindi giunta alla conclusione che alla base della nostra assenza di coscienza di classe ci sia il cartone animato Mimi e la nazionale della pallavolo.
Già gli anime sportivi realizzati tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, gli spokon, di per sé avevano l’epica di un raduno di CasaPound, visto che erano una sorta di sfogo polemico dei giapponesi contro l’articolo della costituzione che li obbligava a non vendicarsi degli americani, ovvero quello con scritto “Noi non avremo più un esercito, solo delle forze di autodifesa esperte in danza sui tacchi a spillo”. I giapponesi dunque si ingegnarono a trovare attività alternative ai bombardamenti e alle invasioni per ribadire la superiorità della loro stirpe, come le vittorie sportive celebrate proprio dagli spokon. Sostituite il mondiale con la gloria della patria, l’allenatore con l’imperatore, condite il tutto con una quantità industriale di dolore, sofferenza e sacrificio e avrete ulteriori traumi infantili da confessare all’analista.
Ovviamente non è giunto a noi questo messaggio, ma la retorica di strenue lotta per il successo finale di cui era intrisa questa serie tv è stato un imprinting malefico per tutti noi. La vicenda di Ayuhara è infatti un gigantesco editoriale di Zingales o noiseFromAmerika che abbiamo introiettato dentro di noi, bisogna solo saperla analizzare.
La storia inizia con Mimì costretta a trasferirsi da Tokyo a causa dell’inquinamento che le ha causato una malattia ai polmoni. Come potete vedere già dall’incipit, Mimì non sta lì in qualche comitato di mamme in collegamento da Santoro a dire le parolacce ai politici che non fanno nulla contro le emissioni delle fabbriche. Mimì preferisce non lamentarsi e farsi deportare in un paesino sul mare, in quanto sa che la diossina è lo sperma che insemina il segno più del PIL. Nella sua nuova scuola Mimì scopre la passione per la pallavolo e noi scopriamo di rimanerci fregati.
È da quel maledetto momento infatti che noi rincorriamo malamente la tempra di acciaio di Mimì e ci rivediamo nella sua storia, puntualmente umiliati dall’esito impietoso del confronto. È stata lei prima di tutti a metterci in testa che l’unico modo per ergersi dalle proprie umili origini non è chiedere di avere una vita migliore, ma dire sempre e comunque sì alle condizioni di lavoro che la strada da noi intrapresa ci impone.
Mimì Ayuhara non permetteva a nessuna lamentela o piagnisteo di mettersi tra lei e il suo obbiettivo. I suoi allenamenti per esempio avevano i ritmi dell’Auchan: niente natali, pasque, pasquette, liberazioni, ferragosti, niente di niente. Non so, voi vi ricordate qualche puntata in cui va da Kiko perché a causa della sindrome premestruale è assolutamente convinta di avere bisogno di uno smalto verde mela? Mimì inoltre non si consumava nel dilemma di doversi dividere tra vita affettiva e vita lavorativa: il suo unico fidanzato, Sutomo, muore. In un incidente stradale, mentre sta andando a vedere la partita della sua bella. E Mimì corre al suo capezzale quando ormai l’agenzia di pompe sta lavorando con Paint al suo necrologio.
Oh, insomma, ma quella doveva giocare, non è che fa bella figura con i capi a prendere e mollare così il lavoro: Sutomo poteva anche venirle incontro schiattando magari a inizio partita mentre Mariah Carey cantava l’inno nazionale giapponese, o nella pausa durante l’esibizione di Madonna e Nicky Minaj, non nel bel mezzo del match point.
Mimì inoltre non ha mai gravato sui bilanci della squadra mettendosi in malattia o costringendo la dirigenza ad assumere altre giocatrici al suo posto: lei giocava pure da infortunata. Neppure ha mai permesso alla dirigenza di sprecare carta per farle firmare le dimissioni in bianco in caso di gravidanza: il suo allenatore provvedeva a prenderla a pallonate sempre nella zona tra l’utero e le ovaie. Infine Mimì non si è mai fatta sfiorare dal pensiero di contestare il volere del suo mister, Hongo. Ogni sua pretesa era un nuovo comandamento, ogni insulto un incoraggiamento, ogni sua strategia un sicuro passo verso il trionfo, non importa se si trattava di giocare a pallavolo con gli schemi tattici di Oronzo Canà o di chiudere gli stabilimenti di Termini Imerese e Pomigliano in cambio di eventuali investimenti su nuovi prodotti.
Se poi le idee di Hongo si rivelavano delle minchiate, mica era colpa sua, ma delle giocatrici e dei sindacati che garantivano troppi diritti, impedendo agli allenatori di potere lavorare in pace.
Così, quando accettiamo di fare uno straordinario non pagato, quando annuiamo davanti al nostro capo che ci parla di stringere la cinghia giocherellando con il portachiavi del suo SUV, quando il posto dove fare ritorno a casa a trentacinque anni è ancora una stanza singola sulla Tuscolana Mimì Ayuhara è dentro di noi. Potremmo infatti rialzare la testa, però… Però poi ci appare la nostra eroina la quale, dopo quattrocento puntate di immane dolore, ha la meglio su tutto e tutti e alza al cielo il trofeo che la proclama ciò che lei, che noi desideriamo più essere: campionessa mondiale, giornalista, avvocato, ingegnere, medico, architetto… E ci crocifiggiamo di sensi di colpa per la nostra incapacità di essere come il mondo ci pretende, a differenza del nostro modello televisivo di vita.
Che poi voglio dire, Mimì Ayuhara per vincere il mondiale sconfigge l’Unione Sovietica: più chiaro di così.