L’Italia, tra le tante cose belle, è anche il Paese degli ascensori.

Siamo al secondo posto al mondo nelle installazioni per abitante, dopo la Spagna e prima della Corea del Sud. Pigrizia? Fosse solo per noi e gli spagnoli sarebbe la conferma di un cliché, ma i coreani? Impossibile. Tutti palazzi altissimi? Macché. Nonne cariche di buste della spesa che tormentano l’amministratore di condominio per farne installare uno, con una moral suasion a colpi di pettegolezzi che nemmeno Napolitano per incaricare Monti? Può darsi.

Una verità statistica direi più che sufficiente a ritenere anche me, da vero italiano, un autorevole esperto sull’argomento. Una di quelle cose che ci rendono un popolo unico e magari difficile a spiegarsi agli altri, come che il pollo nella pasta no, non si fa. Ma anche ‘sti cazzi, sempre.

Mi urgeva un racconto, un approfondimento, ed eccovi le mie dieci lire di latta, la monetina che almeno fino agli anni ottanta serviva per far partire la gran parte degli ascensori. Una valuta esclusiva — guarda un po’ — proprio delle nonne, che in quegli anni, immagino, dovevano fare il bello e il cattivo tempo anche nel mondo dei traslochi.

Vado al sodo.

Per me al terzo posto ci sono gli ascensori di solido acciaio — immagino tedesco — tipici delle costruzioni popolari degli anni settanta, quando gli architetti sfogavano le loro frustrazioni piantando nelle periferie delle grandi città torri brutali di quindici piani. Di solito vanno molto molto piano e speri sempre che basti l’aria, quindi uscirai col sorriso sullo stretto pianerottolo di cemento grigio in cui spererai di nuovo che basti l’aria. Sono ascensori che inducono una certa elasticità emotiva, diciamo. Spesso, immagino per mettere in difficoltà i ladri pigri, i claustrofobici e i complottisti, hanno sui pulsanti i numeri degli interni e non dei piani.

Al secondo posto gli ascensori che la vita è un sogno e che i sogni ti aiutano a vivere meglio, ma solo se sai interpretare bene il sogno, cioè quegli ascensori che quando scendi dovresti uscire dal lato opposto a cui sei entrato, ma non lo capisci subito e quasi sfasci la maniglia della porta chiusa. Ti vergogni della tua stupidità e non ti resta che raccontare a tutti l’accaduto per esorcizzarla. Che è ancora più stupido. Diciamo che scopri una tua stupidità che è un sogno da cui non riesci a uscire, se non provando dal lato sbagliato. Un po’ come scriverne.

Al primo posto finalmente, e con un paio di piani di vantaggio sugli altri, gli ascensori tipici delle riserve borghesi delle grandi città, che quando ci vai per lavoro e apri per scendere ti trovi davanti un soggiorno da club inglese e un filippino che pretende la tua giacca, senz’appello:

– “Ma ho solo questa.”
– “Signore dà giacca. Porto cardigan sta più comodo.”
– “Cos’è un cardigan? Ah, un compromesso tra una giacca e un maglione. Poi dicono che non c’è più il ceto medio. Che morbido, però!”
– “Cosa detto signore?”
E io, abbandonandomi su una poltrona di vitello: “Un Earl Grey con due gocce di latte, grazie Harrison.”
– “Cosa detto signore, scusa?”
– “Ma quanto sei noioso, eh!”

Infine, il mio personalissimo premio della critica.

Facevo il liceo ed ero di corsa, in ansia, ma non ricordo perché. Mi pare che al liceo fossi sempre di corsa. Sarà stata la giovane età. Fu come in una visione di Escher: una scatola di legno scuro veniva verso di me lentamente, chiusa in una gabbia di ferro nero nella tromba delle scale di marmo bianco, e aveva sul fondo uno specchio, in cui si rifletteva la mia ansia. Dopo quella snervante attesa di almeno venti secondi, il vecchio ammasso di ferraglia si posò nel mio stupore con grande leggiadria, e fui io, da bravo giovane irruento, ad aprire la porta con più forza del necessario e sbattendola, facendo un gran casino in un silenzio pressoché totale, che se notate il disegno in un certo punto si vede che Escher deve aver spezzato la matita. All’interno le pareti erano imbottite di pelle rossa e c’erano una panchina, un vecchio bussolotto per quelle famose dieci lire di latta e una targa con un assurdo Si prega di non usare l’elevatore per uso personale. Il loculo era pervaso dal mio senso di colpa per aver fatto tutto quel casino e da quell’odore dolciastro tipico degli anziani, e infatti sulla panchina c’era una vecchia con le buste della spesa, che mi fece subito con gentile fermezza:

– “Buongiorno. Io non scendo.”

Quelle parole si adagiarono su di me come l’ascensore, e non mi hanno più lasciato.

Passarono pochi secondi di silenzio, in cui pensai che gli ascensori, infatti, sono molto usati in quei film con le persone che urlano.

In realtà la signora aveva solo sbagliato pulsante. Mi disse che dal primo piano a far due chiacchiere con un’amica era scesa per errore anziché salire al secondo dove abita. Nonostante la mia insicurezza continuò come a sentirsi minacciata da quella donna con le idee così chiare e semplici, la aiutai a portare la spesa in casa, in cui camminai comunque con circospezione, cercando di non far rumore.

Ebbi in cambio un buon caffè, che lei mi esortò a sorseggiare con calma, e di cui ne prendiamo in media tre al giorno, che se fossero ascensori d’istinto direste che non avrebbe senso. E invece sì, se vi piace scendere a piedi per raccontarvi che non siete poi così pigri.

Sapete, per capire bene le statistiche non basta fermarsi a leggere i primi numeri.