Gianni Alemanno, nome tetragono da far irrigidire nella tomba Benito Mussolini, oltre a essere l’ipotetica onomatopea di una serie di sganassoni della Signora Carlomagno, soffre molto per la questione morale del pidielle nel Lazio.

Ma com’è possibile, direte voi, zecche, che un uomo tanto virile, tanto prestante, tanto eroico e sprezzante di qualsiasi cosa proietti ombra possa farsi infinocchiare sulla questione morale e soffrirne come un omosessuale post Pasolini davanti alle foto di cuccioli di beagle sperimentali? È vero sì che il cane è il miglior amico dell’uomo e ci si può affezionare, ma la morale è un’altra cosa. Non scodinzola, non lecca la mano del padrone dopo averne assaggiato la frusta, non morde le caviglie dei fricchettoni.

Sia quel che sia, a dispetto di quello che si pensa, nel suo ufficio, in questo momento Gianni Alemanno è di umore nero. Prova ad ascoltare un po’ di musica giovane, ma oggi nemmeno i Sotto Fascia Semplice sembrano dargli la leggiadrìa di un tempo. Si siede sulla poltrona. Il ciuffo, attentamente pettinato a nascondere gli anni di piombo durante i sondaggi e la campagna elettorale, gli scivola sulla faccia coprendogli un occhio. Emo. Preda ormai della questione morale lascia che la sua testa da Scipione gli cada in mezzo alle braccia da Scevola, inghiottito dalla scrivania come un U-Boot dall’Atlantico.

Ipocrisia, malaffare, clientelismo, corruzione. Questi sono i demoni che coprono di nerborute falangi il cuore del povero sindaco senza pace. Dove sono finiti i fasti? Dove le feste? Dove le mangiate di tortiglioni in compagnia di deputati, ministri, presidenti di regione? I pranzi della pace! Dove sono finiti tutti? Con il periscopio della mente il piccolo balilla va a cercare quei volti per rintracciare le loro storie: Umberto Bossi… inabile, Rosi Mauro… latitante, Calderoli… disperso, La Russa… purgato, Berlusconi… sclerotico, Renata… Renata! Al pensiero di quella frangetta nera e del destino della sua sodale camerata il sindaco molla, permettendo lo sbarco del magone, già vile bombardiere, sul suo animo patriottico.

Altro che Hic Manebimus Optime. Dietro la scrivania rimaneva una poltrona vuota. Alemanno era sparito, dissolto dalla questione morale. Ridotto ad ipotesi, a mera suggestione, la sua essenza vaga sperduta fra quei lembi dell’universo che vibrando producono la fanfara della storia, fino a sfiorarli con un braccio teso. Una marcia subito lo avvolge, proiettandolo sulla sua onda. Sente così la sua inconsistenza maturare sostenuta da quel movimento frenetico. Il ritmo gli è nel sangue. Chimera diventa e il suo corpo torna alla materia… sogno nazionalista e ricompare nelle mani il tepore della fiamma eterna… utopia populista e i muscoli si tendono sollevandolo in piedi fino a che non prende forma il mito… il mito fascista, il cui alto potenziale, racchiuso nei barbagli del glorioso diamante del ventennio, gli impresse, come automa dell’urbe, una rinnovata carica di elettrico entusiasmo e voltaica disciplina.

Con una saetta futurista negli occhi Alemanno si dà quindi la tipica postura autoritaria da capobranco, con leggera prominenza della mascella, ritirata strategica della pancia, un metro e cinquanta al garrese. Poi prende un palloncino, rimasuglio di un anniversario della marcia su Roma a casa di Iannone, regalo di Dell’Utri, in cui è rappresentato il planisfero politico se la guerra l’avesse vinta l’Asse e prende a giocarci, goliardico, accompagnato nei movimenti da una parata interiore. La questione morale sembra ora un ricordo lontano, qualcosa di esotico e tragico come la battaglia di Elaia-Kalamas, ma proprio per questo ormai innocuo. A ogni rimbalzo di quella distopia di gomma sulla sua mano le nebbie del dubbio etico si disperdono come l’iprite nel vento del deserto libico. Alemanno torna duce di se stesso. Fuori dal suo ufficio si lotta ancora in un fango che prima o poi lo colpirà. Ma intanto, eja eja trallallà!