Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un segretario del PD.

Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati, come gonfio di esotico salame fiorettino; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano correnti molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante: giovani turchi, siriani esodati, colf, puttanelle per la rivoluzione, bersaniani dal ciuffo, dalemiani classici e barricati.

«Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. Il suo partito, un normale partito artificiale di una normale democrazia subtropicale, gli appariva in luce quieta, fra i quattro ben noti distinguo. Sopra al tavolo di segreteria, sul quale era sparpagliato un campionario di multe della municipale a Marchionne (Samsa faceva il sindaco viaggiatore, o “ne era fatto”, come sosteneva lui), lì sopra stava appesa un’illustrazione che aveva ritagliato qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava un signore attempato con un cappello, un sorriso smagliante e un boa di pelliccia, che, seduto ben ritto, sollevava verso gli astanti un cucciolo di leopardo, nascondendovi dentro le viscere, con virile e impunita sfrontatezza, l’intero avambraccio.

Gregor girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo – si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale e sui ruderi ferrosi ancora vividi della Bolognina – si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un altro giro di Primarie?» – pensò, ma non poté mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava a destra. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette benaltriste divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco. Porca troia Violante! Qualcuno doveva aver lasciato il suo sarcofago aperto la sera prima, dopo averlo sceso a pontificare.

Cercò di uscire dal letto dapprima con la metà inferiore del corpo: ma questa parte, che egli non era ancora riuscito a scorgere, né a figurarsene l’aspetto, anche per via di una balaustra di spocchia che gli impediva la visuale, si dimostrò difficile a smuoversi; gli ci volle un tempo infinito, quasi quanto quello che mesi addietro era servito a Bersani per trovare il coraggio di confessare al suo medico la vera ragione di quella brutta ferita all’osso sacro; allora, quasi fuori di sé, raccolta ogni energia, si buttò in avanti alla cieca, ma sbagliò direzione, picchiò con violenza contro uno spigolo della carcassa di Rutelli, sentì un male atroce e capì che quella zona del suo corpo era forse, per il momento, proprio la più sensibile.

Già era arrivato al punto di far fatica a serbare l’equilibrio, aumentando la violenza degli scossoni, e tra poco sarebbe stato necessario decidersi una volta per tutte, dato che alle sette e un quarto non mancavano più che cinque minuti, quando il campanello d’ingresso squillò. «È qualcuno da Roma,» pensò Gregor e s’immobilizzò quasi, mentre il brulichio delle correnti si faceva più vorticoso che mai. Per un attimo tutto fu silenzio. «Non aprono,» si disse Gregor abbandonandosi a chissà quale folle speranza. Ma poi come sempre, Gentiloni andò con passo deciso alla porta ed aprì. Bastò a Gregor sentire la prima parola di saluto del visitatore, per capire chi era: Epifani in persona. Perché mai egli era condannato a lavorare in una accolita dove la minima mancanza risvegliava subito i peggiori sospetti?

«È caduto qualcosa, lì dentro,» disse il Epifani dalla stanza di sinistra. Dalla stanza di destra la Giorgio Gori bisbigliò per avvertirlo: «Gregor, c’è il – ehm – segretario.» «Lo so,» disse Gregor quasi tra sé, non azzardandosi ad alzare la voce tanto da farsi udire da lui.

«Gregor,» attaccò ora Civati dalla stanza di sinistra, «è venuto il signor segretario ad informarsi come mai non sei partito col treno delle cinque. Noi non sappiamo cosa rispondergli; e lui d’altronde vuol parlare personalmente con te. Aprigli, dunque. Sarà tanto gentile da scusare il disordine in cui si trova la camera.» «Buongiorno, signor Samsa,» interloquì Epifani con voce alta e cordiale. «È indisposto,» disse Delrio al segretario, mentre il Civati continuava a parlare attraverso la porta, «Gregor è indisposto, signor segretario, mi creda. Come avrebbe potuto altrimenti perdere il treno per Bad Godesberg! Quel ragazzo non ha altro che il lavoro in testa. Mi fa quasi arrabbiare, perché la sera non esce mai, si mette lì al computer, qualche partita a Candy Crush… alle volte lo trovo davanti allo specchio che rottama, per scherzo si intende, rottama i grandi della storia, i condottieri, addirittura i supereroi, Giulio Cesare, Mazinga, Gesù Cristo in persona! Ma non è cattivo, questo lo posso dire con certezza. Adesso è stato in città otto giorni, ma tutte le sere è rimasto a casa, seduto a tavola con noi, zitto zitto, a leggere il giornale o ad accarezzare languido quella vecchia foto di Marion Cunningham. La massima distrazione che si concede è qualche lavoruccio d’intaglio: in due o tre sere, per esempio, ha fatto una bambolina; vedesse quant’è carina, è appoggiata al muro, lì in camera. L’ha chiamata Serracchiani. Appena apre potrà vederla. Comunque, sono proprio contenta che sia venuto lei in persona, signor segretario, noi da soli non saremmo mai riusciti a convincere Gregor ad aprirci la porta, ostinato com’è; e di sicuro non sta bene, anche se stamattina non ha voluto ammetterlo.» «Vengo subito,» disse Gregor adagio e circospetto, senza muoversi per non perdere una parola della conversazione. «Non saprei trovare altra spiegazione» rispose Epifani, «speriamo non sia nulla. Anche se devo pur dire che noi uomini d’affari – purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista – per considerazioni di opportunità professionale, dobbiamo molto spesso saper vincere qualche lieve malessere o qualche scarsa disposizione alla vita attiva. Prenda Letta, per esempio.» «Dunque, ti decidi ad aprire al signor segretario?» chiese impaziente Delrio, bussando di nuovo alla porta. «No,» disse Gregor. Nella stanza di sinistra si fece un silenzio penoso, in quella di destra Gentiloni cominciò a singhiozzare. Fuori una nebbia fitta sembrava voler nascondere al mondo la vergogna di quella ultima, penosa, mattina del PD.