Ilva, con quel nome da cantante degli anni ’60. Dentro ci sono Milva, Iva ma anche un po’ di Nilla, di Mina e poi qualche pulviscolo di Rita, di Mia e altre. Nel complesso, indubbiamente, sa di Diva. Con la D maiuscola. Diva di quelle che hanno fatto furore per decenni, applaudite, acclamate, celebrate, popolari per la plebe, sofisticate per la borghesia, popolari per l’aristocrazia. Di quelle che piacciono ai grandi e ai piccini, alle ragazze e alle nonne, all’operaio, al prete, al ladro e all’amministratore. Diva di quelle che fischietti in lambretta la mattina, che sussurri all’orecchio la sera, che canticchi facendo cose il pomeriggio. Diva la cui immagine pubblica è prima quella della giovane acqua e sapone, una brava ragazza, un po’ casa e poca chiesa, comunque mai casino. Poi donna, padrona di se stessa, timoniera della barca che finché va sa lasciare andare, magari mamma, quantunque sorella, acciocchè cugina, maquandomai amante, eziandio amica. Per finire poi icona dall’ingombrante figura parastatale, semistituzionale, pseudosacra. Insomma Diva.
Ed è forse per il contrasto con quest’alone così pulito che poi, a distanza di anni, quando la decadenza intona la sua pendula danza, la diva diventa triste, si deprime, si fa vecchia, brutta, acida, depressa, ignorante, suscettibile, perfino cattiva, pedissequamente suocera, allorché stronza. Certo, nessuno dimentica i fasti, i classici, i successi. Sono tutti nei cd venduti a pochi euro negli autogrill, che a differenza di trent’anni fa vendono molto meno dei preservativi. Ma guardiamola in faccia oggi la realtà. Il suo pelo ormai tira meno di una carriola di coleotteri. I vizi, i peccati, i reati, le orge, i compromessi, l’opulenza, l’abbondanza entrano nella scena di quegli occhi con fanfare e brillanti, come ballerine del varietà, confondendoli. Se prima le bastava fare un cinguettìo con la sua ugola fresca come l’acqua di una fonte di montagna per avere il mondo ai suoi piedi, oggi non andrebbe nemmeno bene più come gola profonda in un amatoriale chimico e sudaticcio girato in un capannone di Miami con una parrucca rossa in testa. È il declino. Ma non è solo un fatto di età, è proprio che le giovani ormai il declino lo eseguono meglio. E lei sa che è proprio questo a rendere giovani.
Immaginatevi quindi questa Ilva, una donna rifiutata ormai dalla politica, dall’imprenditoria e dalla chiesa. Una combo che farebbe fuori chiunque non c’è che dire. Rimettiamole i capelli rossi, ma molto più accesi di Milva. Facciamola andare al cinema a vedere la prima di un film di Checco Zalone e vediamola compiere una strage tirando fialette puzzolenti e gavettoni di diossina sul pubblico. Perché questo è successo, per anni, a ogni cinepanettone. Il suo destino come capirete è segnato. Come una ruga. E come una ruga si può spianare. E allora vai di lifting, di peeling, liposuzione, talassoterapia, disintossicazione, analisi, ipnosi, tintura per capelli. Tutto di lei deve restare nel setaccio dello scorso millennio, come fu per il twist, il geghegè, il ballo del mattone o lo zumzumzum: la sua mole, la sua età, la sua esperienza, la sua alitosi. Tutto deve perdere, se vuole risorgere, colpo di teatro di una finta fenice in cenere. Ma prima che ti rinnovino, che ritornino strass e paillettes, in questo momento malinconico, ora che tutti nel tuo dibatterti goffo, buffo e tossico ti stanno guardando, come un cigno col tumore, prendi questa mano, Ilva e canta il tuo cavallo di battaglia.
Addio, troia fumante.