Se ne stava lì sdraiato accanto a me, guardando il soffitto. Come un Padre Pio sotto teca qualsiasi. Mi girai verso di lui, gli accarezzai la spalla, sorrise. Poi ci baciammo e un momento dopo ce l’avevamo già duro. Entrambi. C’inculammo a turno, come uno dei tanti governi dell’alternanza che ci avevano preceduto negli anni, fino a venire.

Mi piaceva quando mi dava dei nomignoli tutti suoi. L’inventava al momento. Un giorno, non lo scorderò mai, mi chiamò Formigoni. Non ho mai capito cosa volesse dire, ma non importa perché mi ricordo ancora del pompino che mi fece subito dopo. Quando venni e guardai il mio sperma colargli sulla faccia pensai ad alta voce “Saranno almeno 2 milioni di spermatozoi”. Lui allora scoppiò a ridere “Ma che dici?! La mia faccia non è mica il Circo Massimo”.

Poi ci abbracciammo forte e cademmo in quel sonno di chi ha appena letto un intero post su Internet.

Dopo un paio d’ore mi svegliai con lui che gironzolava per casa. Aveva indosso una mia camicia bianca, oltre al mio sperma che si era ormai seccato su di lui. Mi guardò da dietro la porta aperta e mi chiese se volessi un selfie. Feci cenno di sì, sorridendo.

Fu in quel mentre che divenne improvvisamente triste, come se avesse appena perso 5 follower su Twitter. Gli strinsi il braccio, come quando vuoi fare coraggio a qualcuno ma non vuoi che ti attacchi un pippone senza fine. Feci per dirgli “Potrai sempre contare su di me” ma non lo dissi perché bastava il pensiero.

In quel mentre ci contattò nostro figlio su Skype.

Paolo era un ragazzo afroamericano, di 26 anni e malato di AIDS. Il suo vero nome era Abdul, ma da quando si era convertito dall’ISIS all’Islam moderato aveva deciso di cambiare anche il suo nome. Ora era a casa dei nonni, i genitori di mio marito, in Calabria. Gli volevano molto bene, nonostante avessero detto ai vicini che fosse il loro schiavo. Nei paesini la gente è ancora un po’ malignuccia. Così, per evitare di farli sgamare, tutti i giorni si alzava alle 4:35 del mattino e andava a raccogliere i pomodori nei campi vicini, fino alle 23:04 quando finalmente poteva tornare a casa e passare quei 10 minuti con i nonni. Ci aveva contattato per sapere quando lo avremmo liberato. Ormai era lì da almeno 9 mesi e non credeva di potercela fare ancora per molto. Ah, i ragazzi. Anch’io alla sua età avevo gli stessi problemi di autostima.

Il fatto è che con la legge Cirinnà, approvata finalmente nel 2021 da Papa Vittorio III, oltre al matrimonio ci venne concessa anche l’adozione dei figli. Sulla carta qualsiasi tipo di figlio, ma in pratica non conoscevo nessuna coppia gay che avesse avuto un figlio sano. Se ti andava bene era un malato terminale a lunga degenza, altrimenti, nei casi peggiori potevano affidarti pure i figli della Meloni.

L’avevamo così tanto voluta che non potevamo certo tirarci indietro.

Guardai di nuovo quel suo sguardo triste e pensai “Ecco, ora mi fa andare in depressione, che palle”. A suo tempo avevo provato a convincerlo ad andare a vivere all’estero, ma lui rispondeva sempre nello stesso modo: sorrideva, iniziava a cantare una canzone a casaccio di Renato Zero e si buttava giù un paio di barbiturici. Almeno aveva l’accortezza di non berci sopra alcolici.

Finimmo con il fumarci una sigaretta seduti sul divano. Ognuno chiuso nel suo smartphone, a celebrare il decimo anniversario della Cirinnà.