Tendenzialmente sono una persona molto pessimista: per me il bicchiere non è mezzo vuoto, per me il bicchiere non ci sta proprio. Nonostante ciò la riforma del lavoro di Renzi, o per meglio dire il Jobs Act, mi dà una bella carica positiva. Renzi infatti aveva ragione a insistere: se col vecchio articolo 18 al massimo avevo voglia di farmi la cioccolata, ora ho una voglia matta di farmi un’impresa.
Mica perché ho un’idea però: voglio solo rosolare nel godimento di avere diritto di vita e di morte sugli esseri umani. Le ho provate tutte per potermi ritagliare il mio spazio di potere assoluto: mi sono iscritta alla P2, mi sono iscritta alla mafia, mi sono iscritta ai poteri forti… Non ho mai combinato niente, visto che pure al Club di Topolino finivo sempre tra i civatiani, per la mia indiscussa misantropia. Ora invece con il Jobs Act posso fare della mia impresa il mio personale impero del male, di cui sarò l’incontestata signora e padrona, in modo da disporre finalmente del destino di quelle misere creaturine mortali chiamate dipendenti. Potrò alzarmi la mattina e licenziare tutte le persone dell’Ariete, per esempio. O indire in azienda giornate a tema, come quella dei lavoratori minorenni. Oppure mettere in pratica delle reali politiche di pari opportunità: se una dipendente diventa mamma, licenzio il padre.
Tuttavia il mio animo melanconico non può fare a meno di vedere fosca la strada delle riforme intraprese da Renzi. Caro Matteo, per fare ripartire l’economia non basterà nessuna riforma del lavoro, del fisco o del catasto finché rimarrà insoluto il vero nodo che strozza il nostro PIL, ovvero la democrazia. So perfettamente che tale affermazione vi avrà fatto rovesciare tutto il tè equosolidale del Kenya sui preservativi della Coop. D’altronde, partendo dal sussidiario della quinta elementare e finendo con gli imparziali documentari di Stefania Craxi su Bettino Craxi, quello che ci è stato detto per tutta la vita è che se la nostra squadra ha vinto la Guerra fredda è perché c’era la democrazia. Solo con quest’ultima l’impresa e la crescita possono prosperare, grazie alla terzietà delle sue leggi e all’imparzialità delle sue istituzioni. Il comunismo invece ha rovinosamente perso la sfida perché c’era un orribile regime che investiva tutto nell’industria pesante, non permettendo alla libera iniziativa imprenditoriale di liberare le sue forze nell’industria leggera. Giustamente è più facile mettere sotto l’albero di Natale il Bimby che un elicottero da guerra.
Tutte queste cose però le studiavo quando mandarsi un fax era ancora un orgasmo di tecnologia. Di questi tempi gli investitori hanno bisogno di solide certezze, non di scioperi. Possibile che uno non fa in tempo ad aprire un’azienda, che dopo solo otto ore di lavoro vede andar via gli operai? Un imprenditore deve pagare l’ira di Dio di tasse per la sanità pubblica, poi però è vietato buttare nel cesso le scorie di plutonio prodotte dalla propria fabbrica di Barbie: perché spendere per gli ospedali se poi tutti devono rimanere sani? E perché pretendere l’asilo sul posto di lavoro, se poi è un reato mandare i figli a lavorare con i genitori? Per non parlare della burocrazia asfissiante e improduttiva: non si può sostituire l’accusa di omicidio colposo con la donazione di un prosciutto alle vedove degli operai?
Guardate invece che inarrestabile sviluppo hanno oggi quei paesi in cui l’esercito controlla con solerzia che non ci siano cartacce o manifestanti per le strade. Guardate quanta saliva trasuda per loro dagli editoriali delle testate economiche. Qui da noi i politici bagnano di champagne le magliette alle ministre quando i dati dicono che la recessione è diminuita rispetto all’anno passato; dall’altra parte del mondo invece le borse si impennano perché finalmente si è emanato il decreto che tutela i diritti civili degli oleodotti minacciati dalla presenza delle minoranze etniche. Dobbiamo chiedere scusa a Pinochet: non è stato infatti un tiranno, è stato un precursore. Ha capito che le richieste delle agenzie di rating non farebbero mai vincere nessun partito. Non vengono bene nemmeno gli slogan elettorali con le riforme strutturali: per esempio l’unica rima che trovo a tagliamo lo stato sociale è vedrai che fico il sesso anale.
Certo, stavolta bisognerebbe usare un approccio più morbido rispetto a quello del generale, non dimentichiamo infatti quanti romanzi di Isabel Allende ha causato la dittatura in Cile. Per esempio gli stadi non riempiamoli di dissidenti, ma di tifosi: facciamo un campionato di trecentosessantacinque giornate, una Champions League con quaranta squadre per paese e il Mondiale tutti gli anni. Così, mentre la gente è distratta, si fanno le indispensabili nonché dolorose riforme di cui ha bisogno il Paese per diventare competitivo e sexy agli occhi dei mercati.
Innanzitutto si vara una bella legge elettorale con sbarramento al 30% e premio di maggioranza del 170% per il partito che arriva primo. Poi si dà finalmente il via all’elezione diretta del Presidente, cliccando mi piace se se ne vuole uno o mettendo un commento se se ne vuole un altro. Il Presidente nominerà i ministri, eleggerà i giudici della Corte costituzionale, comanderà l’esercito, scioglierà le Camere, condurrà Sanremo e resterà in carica finché alle multinazionali farà piacere che si emendi la Costituzione per rinnovarne il mandato. Il Parlamento sarà chiamato più simpaticamente Consiglio di amministrazione. Il popolo potrà manifestare il proprio dissenso, ovviamente, ma stavolta in comodi spazi appartati, muniti di aria condizionata, posti a sedere e baby parking.
Avanti Matteo, fallo, che ci vuole? Rottama questi contropoteri pallosi e sclerotizzati, tanto in Italia in venticinque anni abbiamo già mandato al macero i partiti, i sindacati, le ideologie, le istituzioni e tutto quello che potesse offuscare l’X-Factor dei leader che tanto amiamo osannare. Ora infatti stiamo benissimo. E io sto piena di gin.
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