Lo so, scrivo spesso di astronomia. Colpa di una specie di trauma infantile, credo. È che quand’ero piccolo, da grande volevo fare – a parte ovviamente il ferroviere: chi non vuole fare il ferroviere, da grande, cioè da piccolo? – volevo fare l’astronomo. Poi, a un certo punto, all’incirca quando ho scoperto di essere una capra in matematica, ho rivisto le mie pulsioni nei confronti del cosmo, quantomeno in senso professionale. A chi si stia chiedendo cosa c’entri la matematica con l’astronomia vorrei citare Galileo, il famoso passo sul libro della natura, per sentirmi rispondere “Galileo chi?”, quindi meglio di no.
Allora, quando i 4 meno meno iniziarono a fioccare nei compiti in classe di matematica, decisi saggiamente di spostare l’accento della mia passione astronomica verso territori meno accademici, lontano da quei polverosi baroni universitari che presto avrebbero preteso una spiegazione non aristotelica de li moti caelesti. Frenai così l’entusiasmo, e scalai dalla quinta alla terza, nel senso delle aspettative, facendo per un attimo gridare il mio motore intellettuale, e ponendomi sulla corsia dedicata agli hobbisti, non nel senso del filosofo del Leviatano (philosophy Nazi, scatenate l’inferno!). Dovete infatti sapere che se ti pagano per osservare il cielo, di notte, allora sei un astronomo. Se invece non ti pagano, per osservare il cielo, di notte, anzi spendi soldi per farlo, allora sei un astrofilo. Uno che ama le stelle, ma non è corrisposto. Uno che lo fa come passatempo.
(invece, se vi pagano per guardare il cielo di giorno, grande rispetto)
Così, rimodulate le mie ambizioni, mi feci regalare un piccolo telescopio. Un rifrattore, per la precisione, che è il telescopio più semplice dopo il fondo del bicchiere. Avete presente il classico cannocchiale? Quello lì. Solo più costoso, perché sulla scatola c’è scritto telescopio, mica cannocchiale. Lo puntai tutto eccitato verso il cielo e non vidi un bel niente. Era nuvoloso. Lo puntai verso il cielo la sera dopo e non vidi niente. Di nuovo era nuvoloso. Fece un meteo da schifo per due settimane, così presi il poster delle costellazioni che avevo trovato nella scatola del telescopio, lo fissai al muro e osservai quello, sperimentando subito tutta la frustrazione che i tecnici della Nasa provarono quando si accorsero che Hubble metteva a fuoco da schifo. Loro però potevano inviare una missione spaziale ad aggiustarlo, io di spostare il muro non se ne parlava, pur con tutto l’impegno del mondo.
Fatto sta che col tempo imparai moltissimo sull’universo visibile, e quindi pochissimo, vista la potenza del mio telescopio. Quello che non potevo vedere con gli occhi, potevo studiarlo sull’Atlante del cielo, che avevo comprato coi soldi ricavati dalla vendita del cavalletto del telescopio stesso. Guadagnai una grande fonte di nozioni, e un bell’effetto tremolio. Scoprii tantissime cose interessanti che col mio cannocchiale era impossibile cogliere, tipo che oltre la Luna non c’è solo spazio vuoto e nero. Imparai che ogni tot anni gli anelli di Saturno non si vedono perché stanno di taglio, e insistere è inutile. Imparai che Venere era chiamata anche Lucifero, il portatore di luce, però questo mi è venuto in mente perché si è parlato tanto di Andreotti, ultimamente.
Alla fine, le mie osservazioni si ridussero alla finestra della vicina, che aveva questo sistema binario che non vi dico. È che dentro di me la legge morale non ce n’è mica poi così tanta.