Il fatto che l’Italia sia uno stivale geologico immerso in quella pozzanghera che è il Mediterraneo dimostra già da sé che alla guida del Paese non c’è mai stato un genio. Che delle abbondanti piogge portino poi morte e distruzione, com’è di recente successo, ma come succede ciclicamente in questa nostra terra che va pazza per l’emergenza ma snobba ampiamente la normale manutenzione e i basilari criteri di edificazione sia materiale che morale, è solo una naturale conseguenza.

La classe politica nostrana, ovvero la gamba che si è infilata lo stivale griffato Repubblica democratica per guidarlo nel suo zoppicante cammino, ha subìto nel tempo svariate metamorfosi, mentre il popolo sviluppava tacitamente un meccanismo di mimesi sociale, adattandosi, italico camaleonte, ai suoi amministratori. O magari è avvenuto l’opposto: i politici si sono adattati ai cittadini. E forse alla lunga lo sono diventati, a forza di populismo, in un alla pari che rende tutti vittime e carnefici allo stesso tempo. Così, come infatti spesso capita, la responsabilità degli orrori e degli errori non è di nessuno.

Lungi dal cadere nella moda, se non nella mania, delle generalizzazioni indiscriminate, quelle di chi usa il quantificatore universale (per ogni, quindi tutti) come fosse la ciotola delle noccioline al bancone dell’aperitivo, non si può d’altra parte nemmeno star lì a usare sempre quello esistenziale (almeno uno, un caso alla volta), passando da un distinguo all’altro, da politico a politico, quello è bravo quello no, quello ruba quello no, facendo finta che la classe politica non sia, alla fine dei conti, nient’altro che una somma di individui. E se la somma è negativa, quel poco che c’è di positivo non basta a eliminare il segno meno, non basta a farci negare che la politica italiana sia degenerata nel tempo fino al minimo storico in cui ci è toccato vivere. Che però non è ancora lo zero assoluto. Ma è solo questione di tempo.

Quando i padri costituenti, con ancora negli occhi la polvere delle macerie, pure interiori, che la guerra aveva prodotto, accesero la macchina repubblicana, lo fecero usando come motorino d’avviamento una serie di principi di cui sarebbe difficile smentire l’universalità. Ma i principi, si sa, non possono vincolare l’agire umano, al massimo possono ispirarlo. E per un po’ funzionò.

Funzionò perché un mondo da ricostruire è un mondo pieno di risorse da spendere e sfruttare. Da accaparrarsi, anche. Ma nell’abbondanza è difficile che qualcuno resti a bocca asciutta. E poi, il gioco delle superpotenze, dei blocchi, portava vantaggi a tutti. Si poteva batter cassa da entrambe le parti, se lo si faceva con stile e senza sbandierarlo a destra e a manca. La classe politica pensava al suo bene, al bene dei suoi figli, dei suoi nipoti, dei suoi cugini, e poi al bene dei suoi cittadini. In quest’ordine, perché è quello naturale, perché è così che si fa, quando ce n’è per tutti. E la macchina macinò. A lungo anche. Fu il miracolo.

Ma i miracoli, se si chiamano così, è perché sono eventi unici: sono la sospensione della normalità, non la normalità. E piano piano il giacimento iniziò a concedere di meno. Non si era esaurito, ma ogni tanto c’era bisogno di scavare, cercare più a fondo. E ci scoprimmo bravi, a scavare. I politici continuavano a pensare ai cittadini, solo che iniziarono a farlo un po’ meno: qualcuno, troppo lontano dal potere, rimaneva a mani vuote. Casi isolati, all’inizio, ma nel dubbio tutti iniziarono ad avvicinarsi, a stringersi attorno al potente, quello più a portata di mano. C’era da sistemare la generazione successiva, che nel frattempo aveva fatto il suo esordio. Piccoli piaceri, innocenti doni, magari della terra: guardi qui che bel prosciutto, assaggi assaggi, ma lo sa che mio figlio, è tanto bravo, mi piange il cuore a vederlo senza lavoro. Le cose iniziarono a funzionare per conoscenze. Anzi, per un misto di conoscenze e merito, perché gli incapaci, anche loro ovviamente da sistemare, venivano dirottati dove non potevano far danni. Il bravo, e bene agganciato, vinceva. Il non bravo, e bene agganciato, pareggiava. Il non agganciato, be’, forse doveva aspettare un po’ di più il suo turno, ma insistendo riusciva. Ci vuole impegno e determinazione, si sentiva dire. Il sistema reggeva.

In quell’epoca della spinta, del chi conosci che può darti una mano, uno zio vescovo, un maresciallo amico di famiglia, qualcuno lì alla Provincia, fece il suo esordio anche la successiva generazione di amministratori dello stato, cioè i figli del potere, che più in là avrebbero ricevuto le leve del comando dai genitori stessi, trasformando l’Italia in una repubblica ereditaria. Non c’è niente di cui scandalizzarsi, se vivi in una società che ha come nucleo la famiglia. Intanto le risorse andavano diminuendo, i politici stringevano attorno a sé la coperta dei privilegi, e in pochi riuscivano a infilarcisi sotto, se non erano di casa. I favori iniziarono a costare di più, e quasi nessuno ormai poteva permetterseli. Iniziò un commercio: voti, soldi, poltrone, appalti, un occhio chiuso qui, una soffiata là. Il merito non era più una moneta spendibile. Fu una specie di secondo miracolo, perché incredibilmente la macchina continuò ad andare avanti. Sbuffando e cigolando, il sistema restò in piedi, alimentato forse dalle risorse che una generazione intera di risparmiatori aveva accumulato.

Qualcuno, d’improvviso, gridò ciò che tutti sapevano, denunciò la prassi quotidiana, il normale iter di quasi tutto nel Belpaese: il malaffare, la corruzione. I cittadini, a pranzo, davanti al tiggì, inveivano contro i politici furfanti, masticando primi e secondi acquistati con lo stipendio di un posto di lavoro ottenuto passando magicamente avanti a chissà quanti erano in coda ad attenderlo. Tirarono anche dei soldi addosso ai politici, per rabbia, dimenticando forse che l’avevano già fatto, non in monete ma in mazzette, e con più gentilezza e riservatezza, per accaparrarsi appalti o vie preferenziali. Quei molti, realisticamente troppi, politici che non ebbero manette ai polsi, anche loro gridarono allo scandalo, si dissero sorpresi e stupiti di quella fogna a cielo aperto da cui per anni non avevano sentito mai provenire alcun cattivo odore. Un difetto olfattivo, può darsi. La macchina cominciò a cedere.

La rabbia dei cittadini, col dito accusatorio sempre puntato lontano da casa propria e di proprietà, pretese qualche testa mozzata. Poi, a gran voce, tutti chiesero il cambiamento. Il rinnovamento. Lo votarono e ottennero, senza accorgersi che di nuovo c’era solo la confezione, ora sì scintillante e coloratissima. Dentro, però, c’era la solita pessima sorpresa. L’entusiasmo però riaccese i cuori e le menti, e per un attimo sembrò un altro miracolo. Invece erano solo trucchi ed effetti speciali, e tanta pubblicità.

Si aprì il vaso di Pandora. Con gli Italiani comodamente seduti sugli spalti del circo mediatico, distratti dai soliti 4 o 5 politici pagliacci e da qualche animale esotico, fece il suo ingresso nell’arena del potere ogni genere di avversario del buon governo. L’incapacità divenne un lasciapassare. Rubare un merito. Disinteressarsi dello Stato una prassi. Morta e sepolta da un pezzo la dignità, scomparsa ogni traccia di etica, infine si estinse anche quell’ultimo bagliore di decenza, di saper fare, di vergogna.

Il popolo, anestetizzato, idiota, davanti a un simile spettacolo si spaccò in due. Gli invidiosi e gli scandalizzati. Gli adoratori e i detrattori. Due fazioni costantemente in lotta. E come succede in ogni conflitto, persero tutti meno che i potenti, i politici, che lontani dalla bagarre della battaglia si limitavano, quand’era il caso, a spostare truppe, a gridare proclami e inni, a fomentare lo scontro, mentre insieme, in combutta, elaboravano sistemi per perpetuare i propri privilegi, la loro presenza nelle stanze del potere.

A un certo punto le risorse terminarono. Lo sviluppò si esaurì e la grande macchina economica fu smontata nottetempo e trasferita in un nuovo centro del mondo, dove stava per ripetersi quello che da noi era accaduto qualche decennio prima. La finanza continuò a giocare, tanto il banco vince sempre. Si comprava senza pagare, bastava promettere di farlo. Il benessere lasciò scritto Torno subito, e qualcuno è ancora là fuori che aspetta. Tutto andò in pezzi.

In mezzo alla catastrofe, per un attimo parve che la rabbia popolare stesse per esplodere. La disperazione accese la miccia, pigrizia e indifferenza stavano per finire nella differenziata. Poteva succedere. Ma qualcuno sostituì alla dinamite i fuochi d’artificio, e ancora una volta il popolo rimase incantato davanti allo spettacolo, sotto a un palco, ad ascoltare e annuire, e torce e forconi si trasformarono in parole e slogan, in simboli e merchandising. Lo sdegno fu canalizzato, strutturato, architettato. E infine istituzionalizzato. Nessuna violenza, nessun morto e nessun ferito. Come lamentarsi?

Il piano era distruggere il sistema dall’interno, seguendo le regole. No, non è un paradosso, è solo l’ennesimo trucco per farsi aprire le porte della politica. È come un cavallo di Troia pieno di gente che a Troia vuole andarci ad abitare, non distruggerla. Ristrutturando un po’, magari, ma quelli son gusti.

Ora siam qui, che fluttuiamo lentamente verso il basso. Non è ancora il fondo, perché lo zero politico assoluto deve ancora venire, e verrà in forma di mostruosa e gigantesca beffa, perché il danno è già massimo, quando la capriola istituzionalpopolare sarà completa, quando i politici, indistinti e indistinguibili, arroccati e blindati nel loro potere, inaccessibili, scenderanno in piazza, con motti e striscioni, manifestando contro il loro stesso popolo, contro i cittadini, lamentandone la stupidità, l’incapacità ad autodeterminarsi, l’inazione e l’indifferenza, sbeffeggiandoli e spernacchiandoli pubblicamente e sonoramente. Solo in quel momento lo sputtanamento sarà completo, assoluto e compiuto.