Lo sport e io ci siamo lasciati molto, molto tempo fa. Consensualmente. Io non amavo lui, lui non amava me. Un divorzio indolore. A parte il sottoscritto, non c’erano bambini di mezzo. E, cosa più importante, nemmeno spese legali.
Che poi, sport. Siamo seri. Calcio. Qui si parla di calcio. Ok, c’erano anche il basket e la pallavolo. E pure qualcuno di quegl’altri sport, quelli che sul Televideo non hanno neanche una pagina tutta loro, se la condividono. Ma siamo in Italia, e se dici sport dici calcio, e se per caso dici sport e non dici calcio bisogna che lo specifichi subito, quando ne parli, sennò rischi in sequenza: sguardi sperduti, calo significativo di uditorio, accuse generiche di snobismo, minacce di castrazione chimica, elezione a presidente del circolo marxista-leninista locale, arresto per acclarata attività sovversiva.
Io non ho mai comprato la Gazzetta. Una volta allo stadio ci sono stato, è vero (Bologna-Juventus, coppa Italia, correva l’anno), ma ero nel periodo kerouacchiano e credevo nel valore delle esperienze di vita. 90 minuti trascorsi a pensare a quanto si veda tutto meglio in TV. Non ho mai incollato figurine sull’album Panini. Non seguo il campionato e nemmeno gli altri tornei che riempiono ormai la settimana 24 ore su 24. Sono juventino, e non ho ancora capito il perché. È come essere del PD senza mai votarlo. Non conosco i nomi dei giocatori, e se mi dicono 4-4-2 penso a una locomotiva a vapore americana.
Non odio il calcio, sia chiaro. Nemmeno lo snobbo. Semplicemente non m’interessa. Così come non m’interessa l’archeologia, la pasta madre, la musica house e la coltivazione intensiva di kiwi. Solo che disinteressarsi di calcio, in Italia, equivale al vilipendio alla bandiera. In pratica, è il calcio che odia me.
Questa apatia calcistica ha una conseguenza sociale ben evidente: l’isolamento. Che spesso sfocia in segregazione. I rom, per dire, sono molto più integrati di qualsiasi non-calciofilo, nel nostro Paese.
Il processo di ghettizzazione inizia fin da piccoli. I tuoi compagni delle elementari hanno già i loro eroi ben piazzati nel campionato di serie A. Hanno doppioni e doppioni della loro figurina, con cui hanno riempito ogni angolo del banco (con conseguente punizione, ma ne valeva la pena!), indossano la loro maglia sospettosamente spesso e, soprattutto, sanno come si scrive il loro cognome est-europeo zeppo di segni diacritici e consonanti inusitate, anche se poi nel dettato scrivono accua invece di acqua. Potere delle passioni.
Per fortuna col tempo si cresce. E le cose peggiorano.
Alle cene con amici e parenti vi ritroverete circondati da appassionati di calcio di ogni tipo. Dall’espertone che snocciola statistiche e nomi risalendo anche a fatti calcistici avvenuti negli anni Venti, a quello che pur non sapendone niente non è così scemo come voi da non partecipare al discorso, e per non farsi scoprire parla semplicemente male degli arbitri, che funziona sempre. A voi, invece, vi scoprono.
Potete tener duro quanto volete, chiusi nel vostro silenzio sorridente, ma qualcuno prima o poi ve lo chiederà: “L’hai vista la partita?”. A quel punto bestemmierete alle loro orecchie un “Non seguo il calcio”, e l’apartheid inizierà.
Piano piano, senza tanti annunci, per silenzio assenso, verrete relegati a margine, proprio nel senso della posizione a tavola, ma anche della società maschile, e vi ritroverete a parlare di creme per il viso con vostra zia o di “io i tacchi li adoro, però mammamia che fatica” con la vostra fidanzata e le sue amiche. I gay, per dire, sono molto più integrati di voi, nel nostro Paese.
Giunti a una certa età, però, si raggiunge una specie di equilibrio. Cioè, il problema persiste, ma almeno negli anni avete trovato quei due o tre disadattati come voi che vi garantiscono quel minimo sindacale di socialità. In più, ne sapete a pacchi di scarpe da donna.
Ogni quattro anni, però, c’è il mondiale. Mondiale, capito? Non è che potete prendere e partire e andare in un posto in cui non se ne parla (oddio, Pyongyang, forse… ). Non avete scampo. Per un mese tutti saranno calciofili. Anche le donne (addio elucubrazioni sul tacco 12); anche la vostra nicchia ecologica di disadattati, per istinto di sopravvivenza. Tutto ruoterà attorno al Brasile, agli orari strani delle partite, alle quote delle scommesse, agli infortuni, alle strategie, a Balotelli, alle fidanzate dei calciatori, alle decisioni arbitrali, ai maxischermi, al fischio d’inizio, alla lotteria dei rigori, ai commentatori, alle bandiere, all’inno di Mameli, alle notti magiche.
Mettetevi l’anima in pace e buttatevi nella mischia. Chissà che non vi divertiate. Tanto fra un mese sarà tutto finito.
Anche perché l’unico modo per non saperne di calcio, durante i mondiali, dicono, è fare il CT della nazionale.