Aspetto sul binario vuoto un quarto d’ora. Nell’aria ci sono solo il mio respiro e una goccia di umidità ostinata che picchietta questo ventre grigio di terra e cemento che è la metro A, nell’attesa dell’ultimo treno utile, dell’ultimo minuto prima che sia davvero notte. L’omino in camicia celeste mi si avvicina cautamente per non spaventarmi e mi dice: “Signorina, senti… cioè, mi scusi, l’ultima corsa è già passata”. In via del tutto straordinaria non sono incazzata nera.

– “Va bene, salgo a prendere il notturno”
– “Sì, le conviene. Ma… ha paura? Voglio dire, se ha paura la accompagno io fino in superficie”
– “Sono sola in tutta la metro?”
– “Sì”
– “È meraviglioso. Non si preoccupi”.

Annuisce incerto però non insiste. Le scale mobili sono ancora in funzione, ma tutto mi sembra lento e pesante come un sogno. Attraverso i cantieri scoperti, i lavori interminabili che di giorno vengono portati avanti di nascosto e di notte forse nuovamente distrutti, in un’Odissea sonnambula nelle viscere di Roma/Penelope. Un altro omino con l’aria contrita toglie il lucchetto alla transenna che mi divide dal mondo fuori, non dice niente, si aspetta di esser preso a male parole invece dico solo grazie e buonanotte. Salgo sul notturno e l’autista è uno di quelli tipici che guidano la notte: un mezzo schizzato che va di fretta e se gliene dai l’occasione diventa anche un po’ molesto. Dalla coda del bus sento un’imprecazione in arabo, la intendo, mi viene da ridere e l’uomo cui è sfuggita mi sorride imbarazzato. Quando arrivo nei pressi di casa la guida isterica dell’autista mi confonde e scendo una fermata prima. So che è il mio quartiere ma non so di preciso dove mi trovo. Le cose sono così diverse dopo mezzanotte. Cammino con calma aspettando di leggere il nome di una via familiare. Via Padova, eccoci. Mi volto, la risalgo al contrario, prendo una parallela, la taglio a metà, mi infilo in una stradina privata e ne riesco scavalcando un muretto, quasi a volermi perdere per forza adesso che ho capito dove sono.

“Ha paura?”, mi ha chiesto l’omino sottoterra. Sono sola, di notte. Di solito sì, ho una paura senza senso e senza speranza. E d’altra parte adesso potrei girare l’angolo e potrebbe succedermi di tutto, ma sono calma. Faccio il giro più lungo, sento l’aria che mi si infila un po’ più prepotente sotto la giacca, non mi difendo.

Oggi ho fatto tutto quello che potevo. Oggi non ho detto mai “no”.

Oggi ho salutato, abbracciato, baciato tutti. Oggi ho ricordato e non ho pianto. Se potessi scegliermi un momento per morire vorrei un momento come questo. Un tiepido distillato di pura calma, di totale accettazione dei propri limiti fisici e temporali, un limbo di quiete infinita. Potendo, lascerei scritto un biglietto o una breve lettera le cui parole, più che la carta, odorerebbero già di vecchio.

“Cari mamma e papà, sono la figlia migliore che avreste potuto avere e di più, veramente, non lo meritavate. Sorella, mi manchi. Amici, serenamente, dimenticatemi. Stefano. Amore mio misero, smisurato. È stato bello, molto più di quanto meritassimo, tutti quanti”.